E’ in distribuzione in libreria il volume “Il faro di Mussolini” di Alberto Alpozzi (001 Edizioni, 18 euro), un’opera originale di ricostruzione storica del passato coloniale italiano in Somalia partendo dalla curiosa storia del faro Francesco Crispi. La struttura, costruita a forma di fascio littorio nel 1924 sulla punta più orientale del Corno d’Africa, è ancora esistente adesso, anche se abbandonata.
Pubblichiamo l’introduzione al libro, a cura di Giorgio Ballario.
Migiurtinia, Uebi Scebeli, Somaliland, Socotra, Gibuti, Dancalia, Bab el Mandeb, Assab, Berbera, Amba Alagi. C’è stato un tempo in cui queste parole, che oggi suonano misteriose e sconosciute, facevano battere il cuore degli italiani. Dei nostri nonni e bisnonni. Non solo perché li leggevano nei romanzi di Emilio Salgari, all’epoca popolarissimo, oppure nei giornalini a fumetti di Cino e Franco e in decine di altre pubblicazioni d’avventura. Si studiavano a scuola, si ascoltavano nelle trasmissioni radiofoniche, si udivano nei discorsi al caffè dell’angolo.
Erano gli anni dell’epopea coloniale, del Mal d’Africa, della febbre delle esplorazioni di terre sconosciute che si era diffusa già intorno nella seconda metà del XIX secolo grazie a personaggi come Vittorio Bottego, Pietro Savorgnan di Brazzà, il cardinale Guglielmo Massaia, sino ad arrivare in tempi più recenti allo sfortunato Raimondo Franchetti. Ed erano gli anni del sogno imperiale, della “Quarta sponda”, dell’aquila di Roma che tornava a volteggiare su terre e su mari lontani, della cultura latina che tornava a riproporsi come “faro” di civiltà.
Come poi sia andata a finire, lo sappiamo tutti. Ciò non toglie che per almeno cinquant’anni, vale a dire un terzo della nostra storia unitaria, l’orizzonte coloniale sia stato ben presente nella vita quotidiana degli italiani. Dapprima più che altro come interesse di tipo geopolitico, militare, commerciale e missionario; poi come approdo ideale per i giovani assetati di avventura; infine – ma siamo già alla fine degli Anni Venti e negli Anni Trenta del secolo scorso – come fenomeno di massa per un popolo che, per la prima volta dopo tanti secoli, si illudeva di aver ritrovato un destino comune e un ruolo internazionale consono ai fasti del passato.
Si è rivelato un sogno effimero, eppure a livello di mentalità collettiva qualcosa è rimasto, malgrado il tempo trascorso (ormai più settant’anni) e il sistematico e scientifico lavoro di rimozione e demolizione della memoria operato dalla cultura ufficiale e dalla politica nazionale. L’esperienza coloniale italiana, ufficialmente cominciata nel 1882 con l’acquisizione della baia di Assab, in Eritrea, dal 1945 in poi è stata semplicemente infilata a prender polvere in un cassetto della Storia. E i pochi ricercatori che in tempi più recenti si sono dedicati allo studio di quel fenomeno, l’hanno fatto in modo zoppicante e parziale, con l’intento più o meno dichiarato di bocciarlo da un punto di vista politico e ideologico. Censori, più che storici. Di conseguenza l’esperienza coloniale italiana è scomparsa anche dai programmi scolastici: provate a chiedere a un ragazzino delle Medie, ma anche a uno studente del liceo, se conosce qualcosa delle colonie italiane in Africa.
Eppure è proprio in questi tempi di turbolenze nel Mediterraneo, nel Medio oriente e nell’area africana che si comprende come sarebbe stato importante, per l’Italia, far tesoro del fallimento del proprio colonialismo e sviluppare invece una coscienza post-colonialista e democratica che permettesse di mantenere una sfera d’influenza – strategica, economica e culturale – con le nazioni che furono nostre colonie. Nel reciproco interesse delle parti. Una specie di Commonwealth italiano, perché no? Le premesse c’erano tutte: l’amministrazione fiduciaria della Somalia, concessa dall’Onu all’Italia fino all’indipendenza del 1960; la non ostilità del negus Hailè Selassiè in Etiopia nei confronti dei molti italiani che si erano fermati laggiù anche dopo la guerra, e che costituivano buona parte della classe commerciale e imprenditoriale del Paese; lo storico e amichevole legame con l’Eritrea, “colonia primigenia” dove le élite locali erano da decenni abituate a studiare e pensare in italiano; infine gli stretti rapporti economici e di buon vicinato con la Libia diventata dagli Anni Cinquanta un florido Paese esportatore di petrolio.
Qualcosa di buono è stato fatto. Magari demandando il compito – in assenza di una vera strategia geopolitica nazionale – alle iniziative personali e aziendali di Mattei e dell’Eni, alla linea filoaraba e moderatamente terzomondista di Andreotti, alle spregiudicate relazioni di Craxi con il dittatore somalo Siad Barre e all’ondivago rapporto di Berlusconi con il colonnello Gheddafi. Una soluzione all’italiana, insomma. Dove finiscono per intrecciarsi interessi nazionali e privati e non c’è una chiara linea d’azione sulla base delle reali esigenze e priorità del Paese.
Poi, da almeno vent’anni a questa parte, nei confronti di quella che fu l’Africa italiana è calata una cortina di menefreghismo e disinteresse. Di più. Si è permesso – e in certi casi agevolato – che a livello internazionale in quelle aree geografiche prevalessero interessi esplicitamente anti-italiani, contrabbandati da quelle “crociate” in nome della libertà e della democrazia che ormai conosciamo fin troppo bene. Crociate portate avanti a suon di bombardamenti e creazione artificiosa di movimenti sovversivi e terroristici, com’è noto.
È per questo motivo che un’opera come quella di Alberto Alpozzi rappresenta un piccolo ma significativo passo verso la riappropriazione della memoria collettiva che ci ci è stata strappata. Perché la micro-storia di un faro italiano che ancora esiste – e resiste – sulla punta più orientale dell’Africa, diventa simbolo concreto di un fenomeno che non ha avuto eguali nelle precedenti esperienze coloniali europee.
Lo sottolineava già all’epoca un osservatore al di sopra delle parti come Evelyn Waugh, giornalista e scrittore britannico: «L’idea di conquistare un Paese per andarci a lavorare, di trattare un impero come un luogo dove bisognava portare delle cose», anziché depredarlo, è «l’innovazione» del colonialismo italiano, profondamente diverso da quello inglese e francese. Non a caso quando gli inglesi rimisero Hailè Selassiè sul trono di Addis Abeba, quest’ultimo commentò in modo ironico, ma a suo modo onesto, che ringraziava gli italiani di avergli riconsegnato un Paese migliore di come l’aveva lasciato pochi anni prima.
Oltretutto, bisogna sottolinearlo, l’opera di Alpozzi non è limitata alla semplice e sterile elencazione degli avvenimenti storici che portarono a realizzare il faro, un’infrastruttura fondamentale per la marineria di tutto il mondo, invocata da almeno mezzo secolo. Intorno alla questione del faro Guardafui l’autore ricostruisce il mondo perduto e avventuroso della navigazione tra Mar Rosso e oceano Indiano, delle esplorazioni italiane e delle conquiste coloniali, della documentazione topografica e fotografica di una nazione, la Somalia, che ancora negli Anni Venti del secolo scorso era una sorta di “buco nero” sugli atlanti internazionali. Fino a seguire le tracce dell’ultimo guardiano del faro italiano, che ancora a metà degli Anni Cinquanta – in piena amministrazione fiduciaria tricolore – solitario e abbandonato ai confini del mondo, garantiva il corretto funzionamento della gigantesca lanterna e la sicurezza ai navigli d’ogni bandiera che doppiavano il capo più orientale dell’Africa.
La storia avventurosa, tormentata, sanguinosa e romantica del faro Francesco Crispi, insomma, meritava di essere portata fuori dagli archivi polverosi e proposta al pubblico, sempre crescente, degli appassionati di storia coloniale.
Giorgio Ballario