Perché scrivere un romanzo su quei giovani neofascisti che nei primi anni Settanta segnarono la storia e il costume dal baluardo di piazza San Babila a Milano? Perché parlare di ragazzi coinvolti in una «impressionante sequenza di violenti scontri fisici spesso sanguinosi, conflitti anche armati e aggressioni subite e perpetrate»?.
Forse per inquadrarli, senza troppi sconti, nel loro mondo di sogni e di ferocia, di utopie e di isolamento, di onore e di incoscienza, di ideologia e di sconfinamenti nella delinquenza comune. Forse per tracciarne un profilo disincantato, dato che, al di là delle fredde cronache «mediatiche e inquisitorie», non rimane nulla di loro se non i delitti commessi e le tombe (ma a volte neppure quelle, come accadde per personaggi come Mammarosa, crepato in un conflitto a fuoco con i carabinieri molti anni dopo San Babila, o Pierluigi Pagliai che andò a combattere in Sudamerica, o Umberto Vivirito che morì durante una rapina per autosovvenzione) che ne segnano il ricordo. Ma, obietterà qualcuno, è un ricordo che vale la pena alimentare? Senza dubbio lo è per Maurizio Murelli, sanbabilino della prima ora (oggi tipografo e editore della rivista Orion e di numerose collane di libri), duro e puro del vero e proprio gruppo politico che animò la piazza perché – come lui stesso specifica – in San Babila coesistevano numerosi gruppi diversi tra loro.
Murelli appartiene alla prima generazione, quella «vera» (ché uscì qualche anno fa anche Avene selvatiche, romanzo osannato dalla sinistra e dai politically correct scritto sotto pseudonimo da uno che c’era), ma il suo Indian Summer ’70, C’era una volta San Babila, non vuole piacere al pubblico. È dedicato ai tre personaggi sopra citati, definiti soldati irregolari in una guerra irregolare di cui nessun libro di storia recherà traccia, ed è scritto con una narrazione che l’autore definisce «cruda più che violenta ed effettivamente scorretta, priva di quelle raffinatezze stilistiche che vanno per la maggiore e di cui peraltro non sarebbe capace mancandogli i fondamentali».
Murelli è colto e sempre pronto al dialogo (questo glielo riconoscono anche molti avversari politici), ma viene dalla strada… Protagonista del giovedì nero milanese del 1973, fu condannato a 17 anni e mezzo per il lancio di due bombe in piazza Tricolore che ferirono alcuni agenti. Ha pagato e ora racconta in forma di romanzo all’insegna del «chissenefrega della limacciosa sensibilità dei più»… Una storia di fantasia in cui chi c’era e chi sa può riconoscere facilmente molti agganci con la realtà e i personaggi dell’epoca, anche se Murelli premette che «sbaglierebbe chi tentasse di trovare nella cronaca l’omologo di fatti e persone narrati nel romanzo». Per lui la realtà è uno spunto per usare la propria cultura e la propria psiche, «scardinando l’uscio che separa il cronachistico dall’immaginario».
Così San Babila è uno sfondo che fa da collante ideologico, dopo quarant’anni, alla vita di un gruppo di ultracinquantenni. C’è chi è arrivato (il famoso e ricco notaio), chi cerca ancora l’avventura (il navigatore solitario), chi vive ancora il passato sotto forma di un giudice che ancora oggi gli vieta di vedere il figlio piccolo. Quest’ultimo è Mario, attorno a cui ruota tutta la storia, l’ex sanbabilino che, tra molteplici avventure (tra cui uno scontro multietnico in cui lui si trova paradossalmente dalla parte dei neri contro i razzisti) tutto il vecchio gruppo manderà al diavolo la vita di tutti i giorni per aiutarlo a compiere (o meglio, a non compiere) la sua pazzesca missione. Una vicenda con molti colpi di scena, ma che cura soprattutto le atmosfere e le psicologie. Perché il vero intento di Murelli, a costo di essere un po’ pesante, non sta nelle azioni e nei fatti di cronaca, bensì negli scenari, fisici e mentali. (Da il Giornale)
*Indian Summer ’70. C’era una volta San Babila di Maurizio Murelli Aga Editrice, pagg. 387, euro 25.