Assieme alla politica e all’economia, il cibo è diventato negli ultimi anni un argomento irrinunciabile nei discorsi quotidiani di ciascuno di noi. Ma da dove nasce una tale attenzione?
Motivato anche da ragioni professionali, me lo sono chiesto più volte. È da considerare come una conseguenza della crisi, che ci spinge a concentrarci sui beni primari, fondamentali per la nostra sussistenza, o un riflesso tardo dei decenni di relativa prosperità alimentare che abbiamo alle nostre spalle?
Probabilmente, entrambi questi aspetti concorrono a far sì che oggi i libri più venduti siano quelli sulla cucina – di ogni ordine e grado -, e le trasmissioni più viste in tivvù quelle con rassicuranti imitazioni di massaie come protagoniste, o con spietati chef pluristellati che tiranneggiano in fintissimi reality show. Anche la rispettabilità sociale degli addetti alla ristorazione, cuochi, cantinieri e maestri di sala, è cresciuta esponenzialmente. Se prima il lavoro in un ristorante era considerato come un impiego di second’ordine, di scarso pensiero e abbondante fatica, ora esso è circondato da un’aura di rispettabilità generalizzata totalmente inedita, che ne fa un’allettante prospettiva di carriera per molti giovani, oltre che utile strumento di rimorchio.
Andando oltre lo stranoto assioma feuerbachiano – Der Mann ist, was er isst – , si può ipotizzare che quest’esplosione d’interesse verso il cibo risponda ad un bisogno, ad una mancanza, profondamente sentita nella nostra società contemporanea. Per millenni, il cibo ha rappresentato una delle fondamenta dell’identità umana, come recentemente, ad esempio, Predrag Matvejevic ha raccontato nel suo colto e struggente Pane (Garzanti 2010). Mangiare è sempre stato sinonimo di vivere. Più raramente, di godere. In ogni tempo tuttavia, intimamente e necessariamente connesso col territorio, la tradizione, la religione che concorrevano alla definizione dell’uomo e della sua esistenza. Questi legami ancestrali sono ora estremamente logori, indeboliti. Caratteristica del moderno è lo sradicamento, l’intercambiabilità dei valori. Sua conseguenza sentimentale, la nostalgia.
Pertanto, è davvero è difficile non scorgere nel proliferare commerciale di libri e trasmissioni sulla cucina, e nel successo della loro declinazione nel marketing patinato alla Eataly, un tentativo di colmare la nostra abissale nostalgia per quanto il cibo ha sempre rappresentato in termini di identità, e che si teme adesso irrimediabilmente perduto. L’uomo si riconosceva in ciò che mangiava, e anche su di esso poteva innestare la propria continuità col passato, ed il senso del suo progredire. In fondo si potrebbe riassumere in questo il significato di “tradizione”. Parola che, non a caso, si pronuncia sempre più raramente.
Allora, ecco perché è confortante riconoscersi in presentatrici carine e ben truccate che affettano zucchine, o in estrosi profeti dei fornelli con introiti milionari. Essi mostrano che è ancora possibile una sensualità del cibo, come avveniva per i nostri avi: lavorano, annusano, toccano, trasformano, si sporcano le mani. Sanno da dove provengono le carni che grigliano, conoscono la terra dove sono cresciute quelle verdure. Ma è solo l’illusione di una concretezza. Tutto rimane finzione, un’operazione anestetica.
Per la maggior parte delle persone, cibarsi rimarrà una formalità da sbrigare nel minor tempo possibile, nel tripudio di alimenti surgelati. Una preoccupazione, per i più colpiti dal dramma dell’economia. Un’affermazione di status, per i frequentatori di locali costosi. Un tocco di retorica buonista, per gli habitués del biologico.
Per pochi, la celebrazione viva, aggiornata e riconoscente, di una tradizione.