Uno degli scritti chiave per comprendere la temperie culturale e spirituale del Novecento europeo è senza dubbio La Nausea di Jean Paul Sartre. L’opera, in forma di diario, è strutturata in modo tale da presentare una escalation di avvenimenti che conducono il protagonista Antoine Roquentin a comprendere l’assoluta gratuità ed infondatezza della vita umana e dell’intera esistenza, presa di coscienza questa che culmina con la ben nota visione della radice di un castagno che in quanto si dimostra esistente senza un perché suscita in lui un profondo disgusto, lo nausea appunto. Ad una attenta analisi, nel soggetto di quest’opera, come in tanti altri della letteratura europea del secolo scorso (ricordiamo a titolo d’esempio l’Ulisse di James Joyce o Il fuoco di Gabriele D’Annunzio, ma la lista è veramente vasta) è sovente rinvenibile un ricco repertorio di folgoranti quanto abissali intuizioni – “epifanie” le si è chiamate – che spesso sconfinano nel mistico, nel sovrasensibile. Nella fattispecie l’esperienza che il protagonista de La Nausea si trova ad affrontare è in modo indubitabile riconducibile a quello che nella tradizione metafisica estremo-orientale dello Zen è definito come “intuizione dell’essere” o “satori”: una sorta di sfondamento coscienziale in cui l’intera esperienza personale e cosmica è proiettata in un unico istante, in cui non ci sarebbe più alcuna differenza tra colui che si “rende conto” e l’oggetto dell’osservazione. Uno sconvolgimento tale da mutare in maniera permanente il rapporto che il soggetto ha con la realtà.
Ma l’infondatezza dell’esistenza, il de trop per utilizzare un’espressione cara al Sartre, quell’oscuro sentimento di un assurdo “esser gettati” in un giuoco senza senso – in quanto come ben osservò l’Heidegger, ogni causa dell’esistenza si verrebbe irrimediabilmente a trovare anch’essa esistente, dunque infondata – se in Occidente ha potuto condurre a conclusioni di tipo nichilistico ed a vere e proprie forme di alienazione, in Oriente costituisce invece il sostrato esistenziale della dottrina buddhista della vacuità. Del resto come affermava il patriarca Nagarjuna: «La vacuità male intesa rovina l’uomo ottuso così come un serpente male afferrato o una formula magica mal pronunciata».
È lo stesso Heidegger ad aver intuito nell’Occidente moderno ciò che la tradizione spirituale indiana insegna da millenni, la concezione dell’esistenza intesa come samsara, ossia come cieca ed irrazionale immedesimazione, sorta di ignoranza metafisica (avidyā), che il filosofo tedesco ha chiamato oblio dell’essere, ossia del fatto d’essere. Nel Buddhismo si parla di risveglio (Buddha non altro significa che lo “svegliato”) mentre Heidegger parla di “Sprung”, “salto” oltre lo scorrere del pensiero concettuale, che si concretizza nell’incapacitante stupore per il fatto d’essere piuttosto che non essere, un salto questo che avviene improvvisamente, e che porta a vedere il mondo e se stessi come se li si vedesse per la prima volta. Tali le due “regioni” dell’esistenza: samsara e nirvana, mondo del divenire e mondo dell’essere. Uno costituente l’aspetto relativo della realtà, l’altro quello assoluto. Così si da conto di questi grandi poli dell’esistenza in una celebre poesia zen:
Fin dal principio
tutte le cose (i dharma) sono in sé silenziose e vuote,
ma quando viene la primavera e centinaia di fiori sbocciano
il rigògolo giallo canta sul salice…
Non altra cosa si professò nella tradizione occidentale circa la “dottrina delle due nature” quando si concepì la nascita secondo l’una e secondo l’altra, come di un passaggio da un mondo “demonico”, ad un “sovramondo” (uperkosmìa). D’altro non scrisse Plotino se non di questa esperienza; come racconta il discepolo Porfirio pare ch’egli fu “rapito in estasi” per ben cinque volte. Ma si pensi anche a un Mester Eckhart o a Dante, quando “le sue ali (la ragione) non erano capaci di farlo volare tanto in alto”, che la sua mente “fu percossa da un fulgore” (Paradiso, Canto XXXIII). È il mito greco di Ganimede, il giovinetto talmente intelligente, da meritarsi che Zeus invii la sua aquila a rapirlo (aquila da intendersi come chiaro simbolo dell’intuizione intellettuale “non-umana”, come “non-umana” è la prajñā “conoscenza/saggezza suprema” che consente di raggiungere il risveglio spirituale) che qui si riaffaccia.
Ma esperienze del genere, purtroppo, in Occidente (soprattutto al giorno d’oggi, quando spesso vengono incomprese e scambiate per banali attacchi di panico!) non sono state prese in considerazione sino al punto da dar vita ad una tradizione che si occupasse di tramandare la loro trasmissione, come invece è accaduto in Oriente con l’istituzione di āryasaṅgha (lett. “comunità dei nobili”) intesi come comunità dei “risvegliati”. Sotto questo punto di vista, tuttavia, in Italia c’è da riconoscere la meritoria ed ormai consolidata realtà del Centro Studi “A.S.I.A.” (Associazione Spazio Interiore Ambiente) presieduta dal filosofo e maestro zen Franco Bertossa, che da anni ormai si prodiga nel coniugare la ricerca di senso sollevata dalla cultura filosofica occidentale contemporanea con la millenaria tradizione spirituale buddhista. Chissà che il “grande dubbio” dell’Occidente (Un famoso detto zen vuole che “A un grande dubbio consegue una grande illuminazione”) non rappresenti il terreno fertile da cui germoglierà il nobile fior di loto del Dharma.