Noto uno strano silenzio della cultura italiana sull’attuale crisi socio-politica. Non mi aspetto ovviamente dichiarazioni di voto, raccolta di firme o partigianerie, ma una presenza vitale e inquieta in un momento epocale. Potrei, come tutti, dire la mia sui singoli leader politici, sui pregi e i limiti di quello e di quell’altro, ma sarebbe riduttivo, e sarebbe un indicare il dito al posto della luna. Sento invece il peso e l’angoscia del momento, e valuto le recenti elezioni come uno sfogo e come una liberazione viscerale del popolo intero, ma c’è qualcosa in queste ore drammatiche che proprio non riesco ad accettare, ed è il cupio dissolvi di milioni di italiani.
L’altro pomeriggio, durante la direzione nazionale del Pd, Enrico Letta ha detto una sacrosanta verità, ovvero che il caos attuale nasce da tre semplici numeri: 7, 25 e 50. Che, tradotti, significano questo: l’Europa rappresenta il 7% della popolazione mondiale, produce il 25% della ricchezza globale e gode del 50% del welfare universale. Insomma, il nostro abnorme e illusorio benessere sta finendo. Altri, nel mondo, vogliono un po’ della nostra ricchezza, e io penso che ci sia un po’ di giustizia in questa crescente redistribuzione. Ma noi come stiamo rispondendo alla prospettiva della povertà? Con disprezzo, con odio fratricida, con egoismo, frantumando la nostra storia gloriosa. E’ inaccettabile, e dobbiamo fare di tutto perché la spirale si fermi al più presto.
Il Paese si sta impoverendo, e si sta impoverendo per tanti motivi: perché le merci si producono ormai ovunque (e dunque la ricchezza si è spalmata globalmente); perché abbiamo sprecato troppo in spesa clientelare e in finto welfare (portando il debito pubblico a 2mila miliardi di euro); perché ci siamo illusi di un infinito benessere dimenticando troppo in fretta l’umiltà, la semplicità, il senso di responsabilità che richiede una simile conquista. Invece abbiamo tutti finto di non vedere la realtà e ci siamo limitati a ripetere che i diritti non si toccavano, ma intanto senza gettito fiscale addio diritti, addio benessere, addio Costituzione (e questa pressione fiscale al 50% è esiziale per qualsiasi organismo produttivo). E ora che non siamo più ricchi, cosa ci terrà ancora uniti? Quali sentimenti, quali valori, quali memorie?
Mai come oggi provo struggimento per la mia Patria, anche se so che questa parola farà storcere il muso a molti. Oggi invece non ho paura di pronunciarla, e sono orgoglioso di pronunciarla proprio su questo giornale. Perché non proviamo a dire che abbiamo sbagliato tutti, tutti in quanto italiani? Anche Grillo, ultimo arrivato, sta facendo molti errori, perché sbaglia a disprezzare i nostri giornali, perché sbaglia a pensare che il “mondo nuovo” inizi con lui, perché sbaglia a definire “zombi” uomini e donne italiane che hanno fatto la loro parte, per come hanno saputo, governando democraticamente. Eppure anche Grillo grida e si dispera – voglio sperarlo – per il bene dell’Italia, e io vorrei che tutte queste facce che fino a oggi abbiamo guardato come maschere di un innocuo gioco delle parti noi provassimo per una volta a vederle come facce italiane che hanno a cuore il futuro del nostro Paese, e non soltanto la sopravvivenza del proprio casato e dei propri privilegi.
Non ho le competenze per dire cosa accadrà con il nuovo Governo e da chi sarà guidato, ma si agisca in ogni passaggio da patrioti e non da venditori di tappeti o da conservatori di ottusi privilegi. Oppure il passaggio dall’Italia del benessere all’Italia del malessere dovrà davvero avvenire, come i servizi di sicurezza ci ammoniscono, nella conflittualità, nel disordine e nel sangue? Non sarebbe meglio che ciascuno di noi rinunciasse a qualcosa e portasse sulle spalle un po’ di questa pena?
Non mi spaventa far crescere i miei figli in un’Italia povera, ma in un’Italia dove ormai si sputa su tutto: sui libri, sui preti, sugli studiosi, sui giornalisti, su chiunque abbia a cuore la cultura e le argomentazioni e in spregio gli slogan, gli anatemi, le notti punitive, le bugie propagandistiche. Perché ormai chiunque ha fatto qualcosa di importante è additato come un venduto, un colluso, un esponente del “vecchio mondo”. Ma è un errore, perché l’Italia ha estremo bisogno dei migliori, e non è affatto vero che basta un clic su internet per meritare un ministero, una cattedra universitaria o la prima pagina di un giornale, né basta essere giovani e inesperti per stare al di sopra di ogni sospetto. Cattiva sorte spetterà all’Italia se dovesse malauguratamente considerare i vecchi un peso, l’esperienza un limite, la saggezza una ripugnante bava di mummia.
Io amo la storia e senza quest’amore smisurato per la storia un Paese diventa cattivo e va in rovina. La nostra nazione è gravemente ammalata, e la nazione è la sommatoria dei nostri corpi, ma ormai siamo corpi senza più memoria, e a breve potremmo svegliarci e non sapere più perché ci chiamiamo ancora “italiani”. Vi chiedo e mi chiedo di non compiacerci del troppo veleno che abbiamo in corpo, della certezza di avere ragione, di essere i migliori. Ciascuno faccia la sua parte, perché ci attende un compito immane: accettare la povertà, perdere qualcosa, ritornare a un’Italia umile, continuare a stare insieme su nuove fondamenta umane. Senza questa consapevolezza non c’è Parlamento e non c’è Governo che possa indicare una benché minima luce in questa lunga notte italiana. Per questo, più che mai, il mondo della cultura deve alzare la sua voce e chiedere generosità, passione e senso di responsabilità a tutti.
* da l’Unità dell’8 marzo 2013