Se ne va Anita Ekberg, biondissima e splendida icona del cinema passata alla gloria per la magnetica parte di Sylvia nel capolavoro de “La Dolce Vita” di Federico Fellini (1960). “Anitona”, come usava chiamarla il regista italiano, si è spenta ieri, all’età di 83 anni, nella clinica San Raffaele di Rocca di Papa, in provincia di Roma, dove era ricoverata da tempo. Proprio qui, in Italia – a Genzano, cittadina dei Castelli Romani – l’attrice svedese aveva scelto di trasferirsi da tempo, dalla metà degli anni Sessanta. Un omaggio alla sua Roma, la città a cui era rimasta profondamente affezionata e legata.
Non a torto, perché è qui che Anita Ekberg aveva conosciuto e trovato la notorietà. Dopo l’elezione a reginetta di bellezza in Svezia nel 1950 e gli esordi nel cinema americano (incluso un Golden Globe come miglior attrice emergente), il salto arriva con King Vidor che la chiama per il kolossal “Guerra e pace”. Ma è il nostro Paese a segnare la svolta per quella straniera dagli occhi di ghiaccio che avrebbe incantato il pubblico del grande schermo nella Roma dello splendore neorealista.
L’intramontabile scena della Fontana di Trevi, destinata a restare un cult del cinema, è diventata l’emblema iconico della femminilità. Quella danza in bianco e nero, fra giochi d’acqua e sorrisi ammiccanti, complice il corpo sinuoso e conturbante della Ekberg, contribuì a consegnarne alla storia il ritratto leggendario di diva d’autore, maestosa, inarrivabile, tanto algida nei colori e nell’accento quanto mediterranea nelle forme e nella sensualità dei gesti. Quel ruolo, recitato magistralmente, parve esserle stato cucito addosso su misura, tale e tanto intensa fu l’interpretazione dell’attrice nella pellicola felliniana da valerle, in breve tempo, il riconoscimento della personificazione stessa della Dolce Vita, quell’irripetibile età romana e romantica.
Ingenua e smaliziata allo stesso tempo, seppe regalare una fortunata pagina di cinema con quella particolare e intensa complicità al fianco del bello e tenebroso Marcello Mastroianni, fortunato destinatario di quel “Marcello, come here!” che consacrò la Ekberg alla memoria collettiva come la capricciosa, voluttuosa, biondissima venere che tutto può e tutto ottiene.
E poco importa quanto quella immagine suadente e statuaria, che tanto piaceva al mondo delle celebrities nell’epoca dell’antiproibizionismo – l’epoca degli eccessi, di piume e lustrini, di passioni travolgenti, carne, profumi, jazz e liquori – corrispondesse alla reale personalità della Ekberg, che per la verità non fu mai troppo legata alle luci della ribalta. Intelligente, lungimirante, così tanto coraggiosa e ambiziosa da rifiutare le lusinghiere promesse della Hollywood anni Cinquanta affamata di attrici bionde e dal volto angelico che incarnassero il modello di bellezza americano. La Ekberg era fatta di una pasta diversa dalle starlettes del suo tempo: determinata, dal carattere rigido ma anche estremamente simpatica, a tal punto indipendente da declinare la proposta di matrimonio del regista e magnate Howard Hughes. Ma capì presto che la bellezza può essere potere e ne fece, così, il suo punto di forza. All’apice del successo, protagonista di molti titoli con cast stellati, lusingata, corteggiata, ricercata. Affascinante, coinvolgente, eppure con una vita tribolata e infelice, destino comune a tante dive. Sposata e divorziata due volte (prima con l’inglese Anthony Steel e poi con lo statunitense Rik Van Nutter) fu l’amante segreta di Gianni Agnelli per anni.
Lei, in fondo, non si ribellò mai a quello stereotipo di bellezza tutte curve che le fu affibbiato, facilmente e sommariamente, e altrettanto in fretta e crudelmente strappatole via appena ritenuta fuori dai canoni imposti da quel turbinio folle e tritacarne che era – ed è – l’industria cinematografica.
Destino crudelle nell’apollo aureo dello star system, ma che la Ekberg ha accettato con la stessa dignità, sobrietà e compostezza con cui aveva accolto il successo improvviso. Con leggerezza, ironia, semplicità. Come quando aveva dichiarato: “Sono stata io a rendere famoso Federico Fellini, non il contrario!”.
E proprio il regista italiano ne fece la sua musa intramontabile: tra Fellini l’attrice nacque sodalizio lungo e prolifico, che ha dato alla luce pellicole come “Boccaccio 70” (1962) e “I clown” (1970). A lui, Anita Ekberg resterà sempre legata, artisticamente e personalmente. E forse anche per questo, per quel pezzo di storia che entrambi hanno percorso segnando un’era fortunata e meravigliosa del cinema italiano, nel vicino 1987 – quando ormai la carriera della Ekberg era definitivamente e tristemente tramontata e la celebre icona versava in condizioni difficoltose, economicamente e fisicamente – Federico Fellini decide di dedicarle un ultimo, commovente e immenso tributo. Nasce così “L’Intervista” e, a quasi trent’anni dal mito de “La Dolce Vita”, Marcello Mastroianni e Anita Ekberg si ritrovano di nuovo assieme, occhi negli occhi, ormai anziani, di fronte alla magia del loro stesso mito: quello, sì, intramontabile ed eterno per davvero.