Il teatrino dei media si è focalizzato in queste ore sul caso del piccolo Loris offrendo una immagine distorta dei cittadini di Santa Croce di Camerina (Ragusa): questa narrazione suscita l’inevitabile riprovazione di chi rifugge da odiosi luoghi comuni.
Chi mi conosce da sempre sa che non ho mai provato un amore incondizionato per il paesino in cui sono cresciuta. Non ho mai apprezzato il suo essere per lo più dormiente, un posto in cui stentano ad attecchire proposte culturali e ricreative, eccetto che per una rispettabile tradizione sportiva legata al calcio e al basket, appagato del suo status quo, quasi impolverato, nel complesso indifferente – e quindi nemmeno ostile – al rinnovamento. Lì sembra che il nuovo non riesca a mettere radici, per la verità non ci prova neanche. E non perché tutti i suoi abitanti siano chiusi e insensibili alla bellezza, alla cultura, al buon gusto, alle novità. Anzi. Chi apprezza e desidera tutto ciò, però, va a procurarselo fuori, a pochi chilometri come a centinaia o a migliaia, piuttosto che cercarlo dentro i suoi confini. Tanto sa che lì non lo troverà. Certo, ogni tanto, qualcuno accenna a piccoli, troppo isolati tentativi per rompere questa monotonia incolore, ma rimane in penombra quando non viene risucchiato nel buco nero della stasi. Allora, non resta che prendere la macchina e andare altrove per poi tornare.
Perfino i negozi lì, per lo più, rispecchiano questa predisposizione al “bona-bonè”, all’accontentarsi di quello che c’è e a non chiedere altro. Non sono mai riuscita a spiegarmi questo paradosso del mio paese d’origine: c’è la domanda di qualità però manca un’offerta adeguata. Un paese così, ti dici, è destinato a morire. E, invece no. Anno dopo anno ritorni lì e ti rendi conto che invece di implodere fino a spopolarsi ha continuato a crescere, e non soltanto grazie al migliaio circa di immigrati nord africani e dell’Europa dell’est che da decenni vivono lì. I suoi confini si sono estesi, oltre il piccolo centro, creando propaggini ingioiellate di villette ariose, ordinate, belle, colorate, curate, con il verde intorno.
Ecco, nonostante il mio legame critico con quel contesto, in questi giorni in cui in molti, in troppi, ne parlano senza averlo mai visto, senza aver mai conosciuto nessuno dei suoi abitanti, mi sento offesa. Sono indignata nel sentire i soliti teoremi, stereotipi, luoghi comuni sull’omertà – in un paese siciliano come altro può essere la popolazione se non omertosa? – sulla mancata risposta di collaborazione degli abitanti con gli inquirenti.
Certi commentatori, noncuranti della propria ignoranza (nel senso letterale del termine, perché parlano a vanvera di ciò che non conoscono ma suppongono di conoscere) hanno sottolineato che tutto – TUTTO – il paese sapeva che il bambino veniva abusato e che nessuno – NESSUNO – ha mai detto nulla e che nessuno sta collaborando per far trovare la verità.
Così, da certi media, scopro che i miei ex concittadini sarebbero tutti dei mostri omertosi, gentaglia della peggiore specie, indifferente alla sorte di un bambino di otto anni vittima di violenze, che pur sapendo di queste atrocità ha preferito voltare lo sguardo altrove e chiudersi nel silenzio.
Se non escludo che possano anche esserci persone omertose – per lo più in ambienti con strumenti culturali elementari, e non ditemi che se ne trovano soltanto al Sud – tendenzialmente diffidenti a collaborare per il timore di essere risucchiati in un vortice potente e incontrollabile e in una vicenda più grande di loro – a chi si produce in affermazioni sconsiderate che feriscono un’intera comunità – bonaria, pacifica e tranquilla, percossa e scossa da un avvenimento lacerante e spaventoso – vorrei fare una domanda: vi siete per un solo attimo chiesti se, per caso – e più semplicemente e senza dietrologie – chi non parla, in realtà, lo fa perché davvero non sa niente e niente ha da raccontare? Non è possibile che, magari, il silenzio dei più sia dovuto a una non conoscenza dei fatti più che a una mancanza di senso civico, e sentimento di pietà, e che quel tacere non sia affatto il frutto di quella parola che vi piace tanto (quando si parla di Sicilia e di Meridione), omertà?
Quando sarà riconosciuto una volta per tutte ai siciliani, onesti e civili, di non essere tutti discendenti dei paesani del Giorno della civetta?
In quel posto ci sono cresciuta, lo conosco, e se posso ammetterlo capace di una certa maldicenza pettegola tipicamente paesana, spesso frutto di ignoranza, nullafacenza e di una tendenza a guardare in casa d’altri ciò che non si vuol vedere in casa propria, non credo neanche per un solo attimo alla malignità d’animo dei suoi abitanti e alla loro indifferenza a una tragedia come la morte, per di più violenta, di un bambino.