Se Bersani è lo sconfitto, la destra che fu An (e quindi Msi) è stata letteralmente asfaltata in questa tornata elettorale. Proprio sulla storia della destra italiana Antonio Polito, editorialista del Corriere della Sera e osservatore caustico delle dinamiche della politica, ha scritto un libro che presenta fin dal titolo una tesi inequivocabile: In fondo a destra. Cent’anni di fallimenti politici (Rizzoli, pp. 216, € 14). Per questo motivo, per ragionare senza pudore sui perché di questa implosione e sulla scomparsa di molti protagonisti di questa vicenda, lo abbiamo interpellato.
Polito, come interpreta intanto il risultato emerso dalle urne?
Il risultato delle urne è un incubo per la governabilità. La legge elettorale ha certamente le sue gravi colpe ma anche un altro sistema sarebbe stato comunque difficile garantire la governabilità in un paese dove esistono tre poli che vanno dal 20 al 30%. Come se ne possa uscire, sinceramente, non lo so.
Una cosa la sappiamo: le ultime elezioni sembrano aver definitivamente chiuso il ciclo politico di Gianfranco Fini. Come giudica il suo operato politico?
Vorrei ribaltare ciò che comunemente si dice di Fini, ossia che sia un grande tattico senza strategia. Io penso al contrario che Fini abbia avuto, nel corso della sua storia politica, più senso strategico che tattico e che quest’ultimo, alla fine, l’abbia condannato.
In che senso?
Fini ha avuto il merito di aver capito prima degli altri dirigenti del Msi che bisognava uscire da un ghetto di nostalgia e rimpianti per entrare nel mercato politico moderno. La tattica con cui l’ha fatto è piena di errori, alcuni dei quali gli sono stati condonati dalla storia, altri no. Un errore condonato è stato quello di essersi opposto, nei primi anni ’90, al referendum Segni che proponeva l’abolizione del proporzionale non capendo che il maggioritario sarebbe stato, come poi fu, il sistema necessario per portare la destra al governo.
Che cosa, invece, la storia non perdona?
L’errore tattico non condonato è stato quello di tentare di far cadere Berlusconi. Fini capì prima degli altri che il governo Berlusconi non rispondeva più agli interessi generali del paese, era sostanzialmente ricattato quotidianamente dalla Lega e che Tremonti faceva gli interessi di questa in Consiglio dei Ministri. Per questo Fini fece bene ad assumere delle posizioni critiche. Ma l’idea di sfiduciare Berlusconi, per giunta con dei voti provenienti dalle sue stesse file, avvallò l’idea del tradimento e affidò tutta la sua politica ad un azzardo. La scommessa fu persa e ciò non gli venne perdonato. Io capovolgerei il giudizio che se ne dà su di lui: capì qual era la strada da seguire ma sbagliò a guidare l’automobile nella direzione che voleva seguire.
Nel suo libro, però, parla di Berlusconi come del “fondatore della destra italiana”. Perché sceglie quindi di non considerare An come la rappresentante principale di quello spazio politico ma affida invece tale ruolo a Forza Italia?
La ragione fondamentale è che io mi occupo della destra di governo, un partito liberale e conservatore di massa che si alterna, in un schema bipolare, con un partito progressista al governo del paese. Alleanza Nazionale, così come il suo predecessore, era un partito sostanzialmente identitario che ebbe la possibilità di governare solo con la discesa in campo di Berlusconi e questa è la ragione per la quale mi occupo di lui prioritariamente.
Di fronte a un centrodestra in crisi, quali sono a suo giudizio i modelli dei partiti di destra esteri dai quali i politici italiani possono trarre ispirazione?
È difficile dire. I modelli di destra europea sono o il partito della borghesia, un cui esempio sono i conservatori inglesi, oppure i partiti che s’identificano con lo stato, ad esempio la destra francese che proprio da una crisi dell’entità statuale, la guerra in Algeria, è nata. In Italia, purtroppo, lo stato non è meno debole della borghesia ed è stato privato a lungo dell’apporto delle masse cattoliche a seguito del “non expedit” papale. Quindi, in Italia ha prevalso un altro modello di destra, il modello populista, forse più simile a quello che è stato il partito repubblicano in una fase della sua storia, quella sotto la presidenza di Roosvelt. Certo a differenza di questa, in Italia la destra non si è mai scagliata contro le corporazioni e i monopoli, in questo sicuramente frenata dalla situazione personale di Berlusconi che, a sua volta, è un oligopolista. A ben vedere, tuttavia, il modello più simile alla destra italiana è la destra tedesca, con un forte partito d’ispirazione cristiana, attento al sociale.
Come sostiene nel suo sottotitolo, i fallimenti politici a destra sono stati lunghi cent’anni. In una battuta, quanto lunghi sono, se ce ne sono, i fallimenti politici della sinistra italiana?
I fallimenti della sinistra italiana sono sotto gli occhi di tutti perché, a differenza della destra, la storia della sinistra è studiata e conosciuta. In linea generale, si può dire che il grande errore della sinistra è stato quello di non uscire mai da una visione classista della società, di non aver mai adeguatamente trasformato se stessa in ragione e in funzione delle trasformazioni e della trasformazione della società italiana. Il nord lo dimostra. I voti in uscita dal centrodestra sono andati al Movimento 5 stelle e non alla sinistra. Fondamentalmente, la sinistra è avvertita come estranea e avversa a tutti i centri produttivi non dipendenti e che si basano sul rischio. Questa è la sua più grave colpa che, ancora oggi, non le permette di diventare una forza maggioritaria nel paese.