Questa è una lettera personale, scritta di getto. La scrivo poche ore prima che l’Italia si rechi alle urne. E l’Italia non c’entra nulla. Scrivo di una rivoluzione, la mia, privata, interiore. Quella della soglia dei 30, quella in cui si è obbligati a giocare a colpo sicuro, ad abbandonare l’eminente dignità del provvisorio per la costruzione di una forma, di una casa, di una vita. Quella che si riesce, quella che rimane, quella che è concessa.
Amici, io mi guardo intorno, e osservo una realtà trovata solo fra le pagine che mi hanno confermato nel carattere: Gilles e i Sette Colori. La sporcizia è la stessa, il dramma è identico. Generazioni buttate nell’insofferenza quotidiana della produzione di massa. Poche palle postmoderne. Ma noi veniamo dopo. Con ciò ci hanno tolto la patria, sì, e chissene… Ci hanno tolto il fascismo, sì e chissene… Ci hanno tolto la politica e lo scrivere, sì e chissene… Alla fine, ecco qui, gira che ti rigira, siamo ancora romantici. Di un romanticismo assoluto, perché individuale. Lo culliamo nei nostri libri di carta, reliquie di una conferma emozionante. “Sì, ecco, Drieu, sono io, cazzo, non spararti. Fuoco fatuo, brilla oltre”. Ma lo culliamo ancora, non ci arrendiamo al disumano. Lo guardiamo potendolo guardare. Ecco, siamo così. Afascisti, sì, orfani di tutto. Ma non ancora di noi stessi. Siamo romantici. Punto. Anarchici di emozioni. E dopo la tragedia dell’abominio elettorale, di questa farsa secolare bilanciata fra teste votanti, io dico a Barbadillo: restiamo solo noi, individui, anarchici, romantici. Trentenni innamorati. Prendiamone atto.