Chi ha dimestichezza con le forme che Ernst Junger è in grado di creare all’interno del dialogo fra autore e lettore, ha già per certo lanciato un pensiero di riconoscenza alla Piano B edizioni, ed in particolare a Simone Buttazzi, per la splendida traduzione dell’ultimo inedito jungeriano in Italia, dato alle stampe lo scorso luglio con il titolo: La battaglia come esperienza interiore.
La riconoscenza vale certo per l’intuizione editoriale, ma soprattutto per la sensibilità mostrata nell’adattare alla nostra lingua il lirismo guerriero dello Junger combattente. L’esperienza interiore è infatti un testo assai diverso dal più noto Nelle Tempeste d’Acciaio. Usciti in Germania con soli due anni di differenza (nel 1920 le Tempeste e nel ’22 La Battaglia), l’uno rappresenta il compendio dell’altro: fredda e asettica narrazione della guerra come mobilitazione tecnica, la Tempesta; introspezione ed iconico affresco generazionale, la Battaglia.
Nasce forse qui l’Ernst Junger poeta, il letterato forgiato dalla guerra capace di incarnare nella sua epoca, lunga quanto il novecento, la via di mezzo fra l’uomo che vede e l’uomo che vuole. Risorgenza classica e olimpica di un’aristocrazia tanto sensibile quanto bestiale. E’ questa la generazione degli uomini forgiati dalla paura, dal coraggio, dall’orrore, dalla ferocia di un evento in grado di eliminare ogni vezzo borghese, facendo ripiombare l’individuo nell’eruzione incontrollata di forze primigenie semplicemente prive di razionale spiegazione. Un evento che è tutt’uno con la storia millenaria degli uomini: la Guerra.
La lotta diventa allora esperienza interiore, dialogo allucinato di emozioni primitive, di vita e morte, laddove Eros e Thanatos accompagnano ciascuna delle immagini che Junger scorge ora in trincea, ora sul volto teso di un camerata, tra il fango insanguinato dell’avanzata, ora fra il vino e le lanterne rosse di fugaci e profondissimi incontri. Aleggia su tutto la precarietà eroica, voluttuosa e sensuale che distrugge il tempo di pace, dell’abbondanza, che annichilisce tutto ciò che certifica, rassicura e dà ristoro, per obbligare uomini e nazioni alla conquista di qualcosa che sta oltre il concreto dell’esistenza contrattuale: la volontà, o quel che Junger definisce, con Nietzsche, la superiorità del divenire sull’essere.
Non ci si può far nulla. L’uomo jungeriano è l’uomo dello scorrere della storia. E che essa navighi su fiumi di sangue non può essere considerata un’invenzione della follia. Piuttosto un elemento di natura di fronte al quale l’individuo può mostrare un numero molteplice di comportamenti e sensazioni, ma dentro al quale dovrà comunque sprofondare per intero, volente o nolente: si stagliano qui, allora, le figure dei condottieri, dei braccianti, della teppa da fronte, dei codardi da retrovia. Tutte figure che la battaglia inghiotte, indistintamente, fino all’ultima carica del Marzo ’18. Esiste una sola prospettiva che esce dalle budella intorcinate mentre si assaggia atterriti il secondo di totale silenzio che passa fra il fischio e l’esplosione della granata nemica: vincere. Non conta altro. E’ grazie a questo dialogo interiore che nascerà una generazione nuova, temprata nell’acciaio, vogliosa di ridare “mascolina autorità” ai tempi della tecnica, intesa quale titanica matrigna.
Ed è proprio quale massimo esponente di una nuova gens che Junger dà alle stampe questo immenso affresco di sensazioni, non a caso in un primo dopoguerra già percepito fiacco. E’ in questa cornice che va inserita una chiosa sul capitolo forse più profondo del libro, quello sul pacifismo. L’autore sentendo già lontani gli anni dello scontro (sic!), quasi con pudore rivendica la propria esperienza: il tempo di pace non lo soddisfa, si lo apprezza, ma non gli piace. Infila così, in spregio al freddo pacifista metropolitano di Weimar, l’episodio che forse più degli altri colpisce il lettore: l’allagamento delle trincee dopo un forte nubifragio; l’obbligo per Tedeschi e Inglesi ad uscire allo scoperto con il timore di un completo ed inevitabile massacro. Ma il timore è immotivato: fra nemici, ossia fra interpreti di una logica eterna e collettiva, basta uno sguardo, un cenno del capo. Qui e là un Frtiz e un Tommy cominciano a bere whisky, a scambiarsi bottoni e sigarette, a prendersi in giro dopo mesi di odio lacerante. Si aspetta assieme la fine della pioggia. Si canta. Poi ci si saluta, con rispetto e con onore. La pace, quella vera, è finita con il diluvio. Si torna in postazione, ci si ricomincia ad ammazzare.
Ecco, ad un secolo di lontananza, e dopo settant’anni di pace nella Vecchia Europa, questo capitolo stende il lettore contemporaneo quanto e peggio di un cazzotto, mette i brividi, quasi di vergogna, riassumendo per intero una logica istintiva forse persa per sempre, assieme a volontà e vittoria; e, cosa meno importante ma da confessare, fa scendere qualche lacrima di sincera commozione al recensore, che chiude il pezzo, con la vista un po’ appannata.
*Ernst Junger, La battaglia come esperienza interiore. Edizioni Piano B.