Il fattore decisivo è il Pivot to Asia, cioè il piano strategico di politica estera e militare approntato da Obama, in collaborazione col Pentagono, per i prossimi vent’anni. Semplificando, si tratta di questo: dedicarsi all’accerchiamento del gigante cinese sganciandosi dal costosissimo pantano mediorientale (alleati sauditi compresi), pur conservando un occhio sulla sicurezza dell’alleato Israele. I generali e i think tank americani ne sono felicissimi. Dopo anni “monopolari” – costellati da infiniti disastri e imbarazzanti disfatte dovute all’assenza di un macronemico di riferimento – ora si torna alla guerra fredda o, almeno, a qualcosa che grossomodo le somiglia: una situazione ideale per Washington che può vantare una cinquantennale esperienza in materia e sa perfettamente come muoversi, a differenza dei cinesi che, pur avendo moltissime frecce nel proprio arco, agiscono con imprudente indolenza rischiando di concedere all’avversario un vantaggio decisivo.
Il punto debole del nuovo corso è il necessario ridimensionamento della presenza americana nelle aree tradizionalmente interessate dalla sua azione: cioè Medio Oriente e Africa. Dopo aver largamente contribuito a destabilizzarle, il gigante atlantico cambia tavolo da gioco, delegando al vassallo europeo l’onere di continuare la partita in sua vece. Sfortunatamente, creare mostri non è difficile come disfarsene. I salafiti e i wahhabiti di cui tanto l’Occidente ha approfittato, finanziandoli, armandoli e combattendoli, in un paradossale gioco di guardie e ladri (indistinguibili) sulla pelle dei popoli, portano avanti, con più libertà di manovra, la propria ossessione “protestante” e desertificatrice.
Da qui l’incendio del Sahel con i soli francesi che arrancano sul campo senza già più riuscire a sostenere le spese necessarie per una missione “all’ americana” cioè di durata almeno decennale. Ma anche quanto accade nella fascia magrebina affonda le proprie radici nel contesto fin qui esposto. Il Nord Africa è attraversato, anzitutto, da una forte crisi recessiva: crollo del turismo, disoccupazione, mancanza di liquidità sono il motore di una agitazione sociale che si mescola all’instabilità politica “post primaverile” e rischia di rovesciare i governi esistenti. L’assassinio del laico Chokri Belaid in Tunisia, e le rivolte ad esso seguite, sono la scintilla che rischia di far detonare il caos nell’ormai ennesima terra di nessuno. E di provocare un fisiologico contagio con il vicino Egitto ove il traballante Mohamed Morsi spara le ultime cartucce stringendo in uno storico quanto tiepido abbraccio il collega iraniano Mahmud Ahmadinejad: Il Cairo, l’antico (e ora squattrinato) nemico di Teheran, getta un ponte verso una possibile fonte di denaro sonante, mentre gli iraniani dimostrano al mondo, in barba alle restrizioni economiche, di non essere poi così isolati. Prove di disgelo – motivate dalla convenienza materiale e da un ritrovata, seppur relativa, libertà d’azione – che preoccupano tutti, dai sauditi agli israeliani. E a Obama toccherà il difficile compito di rassicurare Netanyahu su uno scenario per il quale non esistono più facili profeti. Nemmeno americani.