«Se, invece dell’Italia, avesse avuto alle spalle l’impero inglese, sarebbe diventato un secondo Lawrence d’Arabia», scrisse Indro Montanelli nel 1997 sul Corriere della Sera. E se invece della Cinecittà lottizzata del secondo Dopoguerra avesse avuto alle spalle l’impero hollywoodiano a stelle e strisce, aggiungiamo noi, sarebbe diventato un secondo Rambo.
Il Rambo e Lawrence d’Arabia mancato si chiamava Amedeo Guillet, ufficiale di cavalleria nato a Piacenza il 7 febbraio del 1909 da famiglia piemontese-campana, morto centenario a Roma nel giugno del 2010. Un uomo che merita di entrare a pieno titolo nella galleria dei personaggi “non conformi” di Barbadillo per la sua straordinaria avventura in divisa e anche per l’altrettanto coraggiosa vita “in borghese”, dal 1945 in poi.
Meriterebbe davvero un film il Comandante Diavolo, come lo chiamavano i suoi ascari eritrei. Un kolossal con le star più celebrate del firmamento di celluloide, in grado di vincere l’Oscar a Las Vegas. Invece si è dovuto accontentare di un paio buoni di libri biografici e di un documentario televisivo a “La storia siamo noi”; ma non è detto che la cosa gli sia poi dispiaciuta.
Per raccontare la sua mirabolante vita militare, la “guerra privata del tenente Guillet” (per usare il fortunato titolo del libro di Vittorio Dan Segre, pubblicato da Corbaccio) , non basta certo un articolo. Simile a un personaggio uscito dalla penna di Salgari, Amedeo Guillet ha attraversato indenne tre guerre: l’Abissinia, la guerra civile di Spagna e il Secondo conflitto mondiale. Si è guadagnato una quindicina di onorificenze ed è stato uno degli ultimi soldati italiani a deporre le armi in Africa Orientale, quando ormai il sogno dell’impero mussoliniano era crollato sotto i carri armati inglesi a Cheren e Agordat.
A capo del Gruppo Bande Amhara, un’unità composta interamente da soldati indigeni, dopo la caduta di Asmara e Addis Abeba il tenente Guillet decide di continuare la guerra da solo, abbandonando la divisa dell’esercito italiano e vestendo i panni di Cummandar es Sciaitan, il Comandante Diavolo. Già in precedenza lo stile di comando del giovane tenente aveva provocato più d’un mugugno fra i compagni d’arme: trattava gli ascari con dignità e rispetto, dava loro massima responsabilità e la possibilità di mantenere e curare i rispettivi usi e costumi e non è un caso che nella sua unità non si verificò mai un caso di diserzione, né di contrasto tra i soldati indigeni, nonostante la loro appartenenza a differenti etnie e fedi religiose. Permise, ad esempio, ai suoi uomini, di portare sempre al seguito i nuclei familiari (come da tradizione locale) ed egli stesso ebbe una concubina eritrea, Khadija, figlia di un importante capo tribù, che lo seguì durante tutto il suo periodo di servizio, in aperto contrasto con le disposizioni del Governatore italiano che impedivano – almeno sulla carta – i “rapporti duraturi” tra italiani e donne del luogo.
Finita la guerra ufficiale, a cavallo fra Etiopia ed Eritrea comincia la guerriglia del Comandante Diavolo, che in breve diventa un vero spauracchio per gli inglesi, i quali per catturarlo scatenano un’imponente “caccia all’uomo”, con tanto di taglia e ricompensa di mille sterline d’oro per chiunque fornisca informazioni utili ad arrestarlo. Ma nessuno tradisce Guillet, neanche i capi tribù precedentemente in guerra con gli italiani, che, anzi, più volte gli offrono rifugio e copertura. Per quasi otto mesi, su di un cavallo bianco, il Comandante Diavolo – come un Che Guevara ante litteram – assalta e depreda depositi, convogli ferroviari ed avamposti, fa saltare ponti e gallerie rendendo insicura ogni via di comunicazione. Ma alla fine del 1941 la sua banda si è assottigliata e lui stesso si ammala di malaria. Guillet capisce di non poter continuare la sua guerra privata contro l’impero britannico e scioglie l’unità indigena.
Travestito da arabo, grazie anche alla perfetta conoscenza della lingua, per alcune settimane vive di nascosto a Massaua: fa lo scaricatore di porto, il guardiano notturno e l’acquaiolo finché non riesce a raccogliere un po’ di denaro e a imbarcarsi per lo Yemen, seguito dal suo fido luogotenente eritreo. Gli inglesi stanno per arrestarlo, ma Guillet trova ospitalità presso la residenza di un imam e grazie alla sua dimestichezza con i cavalli viene nominato “maniscalco di corte”. Nel ’43 beffa di nuovo gli inglesi e fingendosi un civile pazzo torna in patria su una nave della Croce Rossa.
A Roma Guillet è pronto a rimettersi la divisa per tornare a combattere in Africa, ma l’armistizio dell’8 settembre scompagina i suoi piani. Fedele alla monarchia, segue il Re a Brindisi e veste l’uniforme del ricostituito esercito italiano, ora a fianco di quegli inglesi che ha combattuto per anni. E’ sempre Montanelli a raccontare un aneddoto gustoso: un giorno a Brindisi Guillet, incontra in mensa due degli ufficiali britannici che gli avevano dato la caccia in Eritrea. «Che fortuna non avervi incontrato allora!», commentano alzando il bicchiere alla sua salute. «Che fortuna per voi, forse – risponde con un po’ di amarezza l’ufficiale, ora diventato tenente colonnello – Che disgrazia per me, di certo!».
Prima della fine della guerra civile, Guillet riesce nella sua ultima impresa: sottrae la corona del Negus ai partigiani comunisti della brigata Garibaldi, che l’avevano sequestrata a un reparto della Rsi. Poi dopo il referendum del 1946, fedele al giuramento prestato ai Savoia, rassegna le dimissioni dall’esercito. Vorrebbe anche lasciare il Paese, ma è lo stesso Umberto II a dissuaderlo: «Prima della Casa Reale viene l’Italia». Inizia la seconda vita di Amedeo Guillet. Sposa la cugina Bice, il suo amore giovanile, si laurea in Scienze politiche, vince un concorso e intraprende la carriera diplomatica, che lo porterà in Egitto, Marocco, Giordania, India. Nel ’54, come incaricato d’affari in Yemen, viene ricevuto calorosamente dal figlio dell’imam che gli salvò la vita anni prima.
Nel 1975 conclude la sua attività diplomatica e si ritira a vivere e ad allevare cavalli in Irlanda, dove lo scova lo scrittore Sebastian O’Kelly, che gli dedica il libro “Vita, avventure e amori di Amedeo Guillet. Un eroe italiano in Africa orientale”. Nel 2000, a 91 anni, accompagnato a O’Kelly torna in Eritrea, dove è accolto con tutti gli onori dal presidente della giovane repubblica. In Gran Bretagna è stato quasi una celebrità, ma in Italia è rimasto semi sconosciuto. La patria si ricorda tardi di lui: nel 2000 il presidente Ciampi gli conferisce la Gran Croce dell’ordine militare, massima onorificenza italiana; e il Comune di Capua la cittadinanza onoraria. Solo in occasione del centesimo compleanno i principali tg nazionali gli dedicano un servizio, ma per il film bisognerà ancora aspettare. Tutti i suoi cimeli di guerra sono stati donati al Museo nazionale di Cavalleria di Pinerolo, in provincia di Torino.