Avrò preso un granchio, forse. Ma “Gigolò per caso” non mi è piaciuto affatto. Riuscito a metà – scontato dire: la “metà” di Woody Allen – recitato male, doppiato peggio. C’è chi scrive delicato: preferisco insicuro anzi indefinibile. Ironico ma non troppo, sentimentale ma (volutamente?) acidulo, realistico ma non graffiante quanto si pretende. Con John Turturro proletario-chic con ambizioni da prototipo. Film che non commuove, non stupisce, non dà da pensare, annoia e accende la nostalgia per il cinema dei fratelli Cohen e naturalmente per quello autentico di Allen.
Difficile far peggio. Dopo l’incontro-scontro Allen-Benigni ci si attendeva molto da quello tra due newyorkesi innamorati della patria di Dante. Woody è invecchiato, immagino cosa stia passando dopo le accuse del clan Farrow. Qui in Italia, dopo la morte di Oreste Lionello sembra un altro. Pare si muova a fatica. Turturro, interprete, regista e sceneggiatore, involontariamente inespressivo. Dà l’idea di un operaio rientrato in fabbrica il martedì dopo Pasquetta. Se si vuol recitare con classe è opportuno prima di tutto recitare. Perfino da esistenzialista, cavalcando un profluvio di pensieri molesti. Lavori senza ovale sei ti chiami Clint Eastwood. Sei un’opera d’arte e – anche se non muovi un muscolo – racconti più America di quanto non facciano i Kennedy o la finale del Super Bowl. Se ti chiami Turturro e sei figlio di un pugliese e di una siciliana e la tua mascella fila via quando abbozzi un sorriso, il pane te lo devi guadagnare dandoci sotto. Non puoi sedere di fronte a Woody e uscirtene come se fossi Marlon Brando nell’“Ultimo tango”perché tra l’altro non godi delle simpatie dei bertolucciani.
Diciamola tutta. Il film meriterebbe un sei virgola qualcosa se fosse girato con buone manciate di ritmo. Problema su problema: non sei Woody, pur essendoci amico? Inutile tentare di leggere fin dentro l’anima dei personaggi perché l’effetto finale è Vanzina che dirige De Sica. La storia probabile o improbabile che sia, sia aggrappa ai corpi dell’ultracinquantenne Sharon Stone (anch’essa attrice ma non troppo), a quello notevole di Sofia Vergara, alla grazia evanescente di Vanessa Paradis, due figli con Johnny Depp e alla routine di una comunità ebraica spezzata dai sentimentalismi di un gigolò dal dimenticabile nome: Fioravante. Lei è una graziosa vedova di Brooklyn appartenente ad una comunità chassidica che vieta tutto, tranne il respiro. Il poco professionale Gigolò s’innamora. Lei, Avigal, ricambia o fa solo finta. Vive un po’. Forse le basta o forse il richiamo di Israello è più forte dei sentimenti per un goyim di gradevole aspetto. A un certo punto va via. Lecito dubitare che il quadretto emozionale con tema ebraismo – ben affrescato ma artificioso – sia farina del sacco di Turturro. Ponete su una bilancia da un lato il menage di casa Murray/Allen dall’altro il quotidiano degli ortodossi. Fatto?
Due film in uno: si intrecciano, si girano e rigirano per cento minuti, ma non si mescolano mai. L’uno promette ma non mantiene, l’altro – quello di Allen – mantiene senza promettere, com’è nello stile del quattro volte Oscar. Due film, due ingredienti: l’uno in frigo, cereo, mielato; l’altro in forno agrodolce,saporito. Il finale con Woody processato dai rabbini – ossessione/incubo – è un allenismo che non turba le fiacchezze turturriane. Tutto il resto – eccetto gambe e autoreggenti – è appena intuibile. Crisi e solitudini comprese. La bellezza non ti salva? Se è un tema, che il signor Turturro lo urli la prossima volta: la sua voce non va oltre la seconda fila.
Dopo “Manhattan” (1979), impossibile variare il tema del racconto amorale per dialoghi e immagini(e che immagini!) e se il genio lo hai accanto ne esci inevitabilmente battuto. Morale: frequentare il barbieredi un cervellone, il signor Antonio che pare abbia fatto da intermediario tra Turturro e Allen, non ti cambia la vita.