In una collezione privata scoperto il ritratto di Ito Mancio, di cui parlava l’esploratore italiano Giuseppe Tucci, fondatore dell’IsMEO nel 1933 con Giovanni Gentile
Di solito, nel dialogo con l’Oriente è bene verificare due volte. Così ha fatto Paola Di Rico della Fondazione Trivulzio, che nel riordinare una importante collezione privata di dipinti, ha trovato un quadro della fine del cinquecento raffigurante un giovane dall’aria orientale, e ha deciso di fermarsi un momento per studiarlo meglio.
La sua curiosità è stata premiata: sul retro della tela ha prima scoperto la misteriosa iscrizione “Mansio”, e poi ha iniziato una lunga ricerca, descritta in un articolo recentemente pubblicato dalla Di Rico sulla Trivulziana, intitolato “l’Ambasciatore giapponese di Domenico Tintoretto”. Il quadro, di cui una radiografia ha mostrato che il colletto è stato ridipinto in un secondo momento, per adeguarlo alla moda di fine cinquecento – anche secondo l’esperto Sergio Marinelli è opera di Domenico, figlio di Jacopo Tintoretto.
Il giovane orientale è il giapponese Ito Mancio, incaricato dal Daimyo di Bungo (oggi Oita, nel Kyushu) di guidare la “prima ambasceria e obbedienza, giunta a Roma papale, dai Re del Giappone” per incontrare Papa Gregorio XIII. Ito Mancio e Chijiva Geizeiemon (battezzato Michele), accompagnati da Don Martino Hara e Don Giuliano Naka-ura, arrivano in Europa nel 1585 con una missione organizzata da Alessandro Valignano, il gesuita italiano maestro di Matteo Ricci, a cui dobbiamo l’inizio dei rapporti tra un’Italia ancora non unita, e un Giappone che lo è ancora meno.
E’ un viaggio avventuroso attraverso l’oceano indiano, per visitare il Portogallo e la Spagna, ma soprattutto l’Italia, che percorrono in lungo e in largo: da Roma ad Assisi, Loreto, Urbino, Ancona, Bologna, Ferrara, Milano, Verona, e naturalmente Venezia. Sembrerebbe che l’opera di Tintoretto sia l’unica rimasta di una serie commissionata appunto dalla Repubblica di Venezia per commemorare la visita dei quattro giovani ambasciatori giapponesi.
Sapevamo – lo racconta Giuseppe Tucci, fondatore nel 1933, insieme a Giovanni Gentile, dell’Istituto per il Medio ed Estremo Oriente (IsMEO) – che almeno uno dei quattro ragazzi, probabilmente Mancio, aveva posato a Venezia di fronte a Tintoretto. Adesso siamo grati a Paola Di Rico per aver trovato l’opera, e averci dato l’occasione di verificare ancora quanto sia profondo e speciale il rapporto tra l’Italia e il Giappone, da sempre fondato non solo sul reciproco interesse, ma soprattutto sul reciproco rispetto.
Nei resoconti che ci rimangono della visita dei quattro ambasciatori, si leggono la stima e l’ammirazione riscosse – in un contesto esigente e raffinato come poteva essere quello dell’Italia del Rinascimento – dai giovani giapponesi: “Nelle maniere sono civili, cortesi e modesti, fra loro si portano molto rispetto, nel mangiare sono parchi e politi. Notano bene ogni cosa che veggono, ma non si meravigliano molto, con che mostrano animo grande e nobile”, racconta il relatore Benacci, e aggiunge che “sanno la lingua portoghese e la spagnola mediocremente, la latina in gran parte e l’italiana quasi tutta”.
Attraverso i secoli, vi è una caratteristica che differenzia il rapporto Italia-Giappone da quello instaurato con gli altri paesi Europei, soprattutto le potenze coloniali: l’atteggiamento italiano nei confronti dei giapponesi è meno legato ai tipici modelli di una visione eurocentrica fondata su una gerarchia dei popoli e delle nazioni. Oggi il quadro del giovane Ito Mancio ci ricorda come tale distinzione emerga sin dai primi contatti.
E’ noto come i religiosi portoghesi del ‘500 – poi perseguitati duramente in un Giappone indipendente e orgoglioso delle sue tradizioni – predicassero in Asia con sistemi inelastici e pedanti, imponendo ai fedeli la semplice ripetizione di formule europee, preghiere costruite con frasi assonanti, che nella lingua locale venivano praticamente svuotate del loro significato.
Invece l’orientamento del missionario gesuita Alessandro Valignano – maestro di Matteo Ricci e organizzatore del viaggio di Ito Mancio – è molto diverso: per Valignano non si può pretendere di imporre costumi europei ai cristiani dell’Asia. Va introdotto il concetto della pluralità delle culture, della necessità di rispettare e conoscere l’altro. Il gesuita italiano per diversi anni studia la lingua giapponese, prima di intraprendere a fondo la sua opera di evangelizzazione, e costruirla poi su misura, adeguata alla cultura nipponica. Egli addirittura rifiuta il concetto di una superiorità della civiltà occidentale, e riesce ad aprire un dialogo politico paritario con la classe dirigente nipponica.
Vi è una linea di continuità tra queste prime missioni avvenute in pieno Rinascimento, e la reciproca ricerca di un’alleanza disinteressata tra i nostri due paesi dall’inizio del ventesimo secolo. Oggi, con l’aumento dei rapporti economici e politici tra l’Italia ed altre grandi realtà asiatiche, sarebbe utile una conoscenza più profonda di questo rapporto speciale, e forse incomparabile.