Il mondo ha vissuto nel giro di poco più di un secolo tre rivoluzioni e controrivoluzioni monetarie e finanziarie: quella che nella prima metà del XX secolo ha introdotto il controllo della quantità di moneta e di finanza nazionale affidandone la cura alle banche centrali e alle autorità di borsa; quella che nella seconda metà del XX secolo ha restituito al mercato globale il potere di decidere la quantità di moneta e finanza, dopo la rinuncia unilaterale degli Stati Uniti di non più rispettare le regole stabilite a Bretton Woods; e quella che ha dato libero sfogo all’interno e all’esterno alle innovazioni finanziarie, fino all’esplosione dei derivati come fossero una time bomb (la definizione è di Warren Buffet, ma del 2002).
La teoria ha avuto un ruolo importante in tutte e tre le rivoluzioni: mentre però lo ha avuto in modo autonomo nelle prime due, nella terza è andata al traino degli interessi costituiti. A nulla sono valsi i richiami di scuola italiana, maturati nell’ambito dell’Associazione Guido Carli, ormai disciolta, che hanno avvertito per tempo (nel 1996) che la moneta non era più solo quella delle statistiche prese a riferimento per la politica monetaria e che andava dedicato un grosso impegno culturale per pervenire a una nuova regolamentazione dell’intero settore finanziario. Fuggiti i buoi dalle stalle, il fenomeno viene ora interpretato come frutto della malvagità di banchieri, finanzieri e politici, mentre l’ignoranza ha contato e conta ancora molto sia quella di parte pubblica, sia privata, senza che un tale giudizio equivalga a un’assoluzione generalizzata dei responsabili.
Alcune crisi di dimensione significativa, come quella della Ltcm consigliata dal premio Nobel dell’economia Miller, o quelle della Bear Stearns e Lehman Brothers e, ancor più, il derivato sul debito pubblico greco stipulato per nascondere le gravi perdite di bilancio che ha fatto rischiare un collasso all’euro e messo in crisi i debiti sovrani di molti paesi, Italia compresa, avrebbe dovuto far riflettere le autorità e i manager bancari e finanziari, suggerendo loro una più viva attenzione e prudenza nel settore. Evidentemente sono stati a sentire gli economisti anglosassoni che sostenevano la libera espressione dei derivati sulla base di cinque argomenti: essi rendono più stabile il funzionamento del mercato; hanno migliori abilità previsive rispetto ad altri strumenti finanziari; attenuano le asimmetrie informative; riducono il prezzo richiesto (bid-ask spread) dalle analoghe operazioni; eliminano le frizioni e i disturbi di mercato (individuati da Nobel Coase).
La mia posizione resta immutata e si basa sullo strumento logico dell’esistenza di una “causazione inversa”: possono anche creare instabilità (come hanno fatto); influenzano le previsioni fino a determinarle; attenuano le asimmetria per gli offerenti derivati, ma le aumentano per i domandanti (in tutti i casi esplosi); riducono gli spread perché sbagliano nel valutare i rischi; possono aumentare le frizioni e i disturbi. Se si pensa che ancora nel 2009, dopo la crisi sui crediti subprime, un documento della Commissione europea sosteneva che il problema consisteva solo nella mancanza di una controparte in caso di insolvenza (una Central Counterparty Clearing House), ma ribadiva che i derivati hanno capacità di prevedere gli andamenti di mercato e riducono le asimmetrie informative, i costi e le frizioni-disturbi, viene lo sconforto per ciò al quale assistiamo.
“Il problema invece è quello di riprendere la costruzione dell’architettura monetaria e finanziaria globale creata a Bretton Woods recuperando i tre principi di base malauguratamente abbandonati: la quantità di moneta e finanza deve essere regolata o quanto meno intensamente sorvegliata su basi multilaterali, perché il mercato nel suo complesso non è in condizione di autoregolarsi; non possono esservi comparti a diversa regolamentazione perché i flussi si indirizzano verso quelli dove essa è minore, non dove le risorse vengono meglio gestite; la questa regolamentazione richiede una costante manutenzione, perché la sua obsolescenza si tramuta presto in dramma. Non è la sola cosa da fare, ma certamente è la più urgente se si vuole riportare il settore al servizio dello sviluppo. Ciò che sta accadendo e, ancor peggio, può accadere sui rapporti di cambio ha legami con questa problematica. Per evitare disastri, occorre chiamare a raccolta tutte le menti in grado di pensare in modo indipendente”.
Dal Sole24Ore del 27 gennaio 2013