Due aforismi di Giuseppe Prezzolini, che tornano assai utili in questi tempi di campagna elettorale: «L’uomo politico in Italia è uomo avvocato. Il dire niente in molte parole è stata sempre la prima qualità degli uomini politici; che se hanno sommato il dire niente al parlare fiorito, hanno raggiunto la perfezione». «Gli uomini politici italiani, in generale, sono mediocri».
Nato il 27 gennaio del 1882, Prezzolini se ne andò centenario nei giorni in cui l’Italia era ancora ebbra di felicità per l’impresa compiuta pochi giorni prima a Madrid dai ragazzi di Bearzot: Campioni del Mondo! Campioni del Mondo! Campioni del Mondo! Quell’Italia che riscopriva in gusto di sventolare di nuovo il tricolore, sia pure per una partita di calcio, e che usciva dal decennio terribile delle stragi e degli Anni di Piombo, non si soffermò più di tanto a celebrare la scomparsa dell’intellettuale toscano, uno dei grandi “antitaliani” della nostra cultura, testimone implacabile di glorie e orrori novecenteschi.
L’aveva fatto pochi mesi prima, in veste ufficiale, l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, premiandolo con la Penna d’Oro. Prezzolini aveva appena compiuto cent’anni, ma non per questo aveva perso il gusto, tutto toscano, della battuta mordace e irriverente. Quando Pertini, sul finire della cerimonia chiese allo scrittore – auto esiliatosi da alcuni anni a Lugano – perché non tornasse a vivere in Italia, Prezzolini replicò caustico: «Stia tranquillo presidente! In Italia ci vengo tutti i giovedì a comprare la verdura». Alludendo alle brevi puntate che dalla Svizzera si concedeva per far spese oltreconfine.
Era fatto così, Prezzolini. Un coacervo di contraddizioni lucidamente tenute insieme da un’intelligenza vivace, poliedrica, anticonformista. Un fulgido esempio di cultura italiana che però scansava come la peste tutti quei vizi accomodanti – anch’essi tipicamente italiani – che hanno sempre contraddistinto gli intellettuali tricolori. Lui stesso si definì “anarchico conservatore”, prendendo a prestito da entrambi gli aggettivi le caratteristiche più scomode e meno remunerative. Perché forse, in fondo in fondo, era anche un po’ “bastian contrario”.
Come ha scritto Gennaro Sangiuliano, «La contraddizione è stata in lui un sistema di vita, punteggiata da un sottile gioco degli opposti. Non si è laureato ma è stato lo stimato docente di una delle più prestigiose università americane; ha avuto la tessera di giornalista solo a ottantasei anni ma illustri direttori di giornali (Longanesi, Ansaldo, Spadolini, Montanelli, Missiroli) lo hanno eretto a loro maestro; non ha fatto politica ma qualcuno lo ha definito “impresario di movimenti politici”; non ha mai brigato per ottenere onorificenze ma è stato fatto cavaliere di Gran Croce. Lontano e critico verso le esibizioni belliche dannunziane, brigò per farsi riformare alla leva militare ma poi ha combattuto da volontario la Prima guerra mondiale, facendo con onore la sua parte».
Quindi un intellettuale senza titoli accademici, un giornalista senza tessera dell’Ordine, amico fraterno di Mussolini ma non fascista, conservatore senza essere codino e bigotto, nazionalista ma non patriottardo. Soprattutto un uomo libero. Durante il fascismo all’amico Benito, di cui fu editore e in un certo senso scopritore, avrebbe potuto chiedere ogni cosa: la nomina ad accademico, oppure quella ad ambasciatore o senatore. Eppure Prezzolini, che con l’antifascismo non volle mai avere nulla a che fare, al Duce chiese solo la liberazione di un oppositore al regime e alcuni mobili per Casa Italiana (l’istituzione culturale di cui fu direttore negli Usa). In seguito, quando il fascismo cadde travolto dalla sconfitta e molti intellettuali sfacciatamente compromessi con il regime ne presero le distanze in modo plateale, sfidando l’impopolarità e il marchio di “fascista” Prezzolini continuò a dare del movimento mussoliniano un giudizio articolato e obiettivo.
Nato a Perugia nel 1882 da genitori senesi (il padre era prefetto), Giuseppe Prezzolini rimane orfano in giovane età e già a 21 anni inizia la sua attività di giornalista ed editore. Agli albori del ‘900 si trasferisce a Parigi dove entra in contatto con alcuni fra i più importanti intellettuali transalpini dell’epoca, come Georges Sorel e Henri Bergson. Con l’amico Giovanni Papini fonda la rivista Leonardo e nel 1908 dà vita alla sua iniziativa più celebre, La Voce, giornale culturale, politico e letterario che di lì a poco diventerà palestra delle maggiori firme del giornalismo italiano.
Dopo la guerra (alla quale partecipa come volontario con i gradi da ufficiale) e dopo l’avvento del fascismo, nel ’29 si trasferisce negli Stati Uniti per insegnare alla Columbia University di New York. Negli Usa rimane per oltre 25 anni, ma non recide mai il suo legame con l’Italia; anzi continua a scrivere saggi e a collaborare attivamente con giornali e riviste. La sua firma compare regolarmente su periodici come Il Borghese e quotidiani come Il Tempo e Il Resto del Carlino. Prezzolini si dimostra un “irregolare” anche per la natura dei suoi scritti, che non sono catalogabili entro parametri tradizionali: non si tratta di romanzi, non sono pièces teatrali, né poesia, e neppure ricerche storiografiche, opere politologiche e filosofiche in senso stretto. Ma nemmeno di critica letteraria alla maniera tradizionale (se si prescinde da alcuni studi sui mistici tedeschi risalenti agli anni Dieci e al monumentale repertorio bibliografico della storia e della critica della letteratura italiana).
Autore di dotti saggi sulla letteratura italiana, negli Usa deve il suo successo grazie a un curioso libro che parla di arte culinaria: “Spaghetti-dinner”. Tra le sue opere più importanti vanno ricordati i memoriali “Dopo Caporetto” e “Vittorio Veneto”; saggi come “La cultura italiana” (scritto a quattro mani con Papini); biografie come “Benito Mussolini” e “Vita di Nicolò Machiavelli fiorentino”; “America in pantofole”, “L’italiano inutile”, “Diario 1942-1968”, “Il manifesto dei conservatori”.
Rientrato in Italia si stabilisce a Vietri sul Mare, in provincia di Salerno, ma nel 1968 la sua inquietudine lo porta di nuovo all’estero, questa volta per sempre: va a vivere a Lugano e di lì non cessa di guardare con occhio implacabile l’amata-odiata Italia. Nelle sue pagine, già molti anni fa, profetizzava i grandi temi irrisolti della cultura occidentale, in particolare l’indagine sul rapporto non facile tra cultura e politica. E in quest’Italia del terzo millennio ostaggio di cricche, caste e lobby (anche intellettuali), certe sue frasi risuonano molto più che attuali. Come quella contenuta nel Codice della vita italiana, capitolo I, “Dei furbi e dei fessi”: «L’Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l’Italia sono i furbi, che non fanno nulla, spendono e se la godono».