Società di diritto olandese con residenza fiscale nel Regno Unito. Che la Fiat parlasse sempre meno italiano lo si sapeva. Da adesso, però, l’azienda automobilistica di Torino non avrà più “la testa” in Italia ma laddove è più conveniente (all’azienda stessa, è chiaro) in termini fiscali o dove non esiste una legge sull’Opa, come in Italia appunto, che non permetterebbe alla famiglia Agnelli di gestire l’azienda con meno del 30%.
Questa è la Fiat fortemente voluta da Sergio Marchionne che non a caso esulta per l’operazione: «Cinque anni fa abbiamo iniziato a coltivare un sogno di cooperazione industriale a livello mondiale, ma anche un grande sogno di integrazione culturale a tutti i livelli». Ed ancora, innestando nel discorso contenuti di natura se vogliamo anche politica: «Abbiamo lavorato caparbiamente e senza sosta a questo progetto per trasformare le differenze in punti di forza e per abbattere gli steccati nazionalistici e culturali».
Il comunicato dell’azienda precisa che «tutte le attività che confluiranno nel gruppo proseguiranno senza alcun impatto sui livelli occupazionali». Una precisazione che vorrebbe rappresentare una rassicurazione per i lavoratori delle fabbriche italiane: il punto, però, è che da mesi si aspetta il piano sui nuovi modelli da sviluppare nei presidi del Paese.
Davanti a questa notizia il premier Enrico Letta esulta a scatola chiusa – «Fiat è diventato un attore globale e la questione della sede legale è assolutamente secondaria, quel che conta sono i posti di lavoro e le macchine vendute» – mentre numeroso è fronte dei contrari a partire proprio dall’accusa “etica” sul pagamento delle tasse altrove e sull’abbandono del Paese nel momento in cui l’azienda avrebbe dovuto corrispondere dopo anni e anni di sussidi pubblici.
«Preoccupa che un gruppo come Fiat decida di andare a pagare le tasse in un altro Paese facendo un’operazione anche qui di impoverimento» ha attaccato il leader della Cgil Susanna Camusso. Mentre Renata Polverini, ex sindacalista e deputata di Forza Italia, chiede che il governo riferisca in Aula: «Al di là della portata economica di questa operazione resta il significato politico del fallimento totale delle politiche industriali messe in campo dal Governo Letta ed il cinismo dei vertici Fiat platealmente immemori degli sforzi che l’Italia ha fatto, negli anni, per sostenere la fabbrica e la tradizione metalmeccanica del nostro Paese».