Non siamo scimmie ammaestrate. Non portiamo al collo le catene del piagnisteo, della lagna, del dogma. Dobbiamo e possiamo parlare di quello che ci va perché abbiamo sempre una risata in tasca per redimere i tabù con cui ci hanno recintato in un angolo. Fosse anche unicamente questo il messaggio dell’ultimo film di Quentin Tarantino, “Django Unchained”, tanto basterebbe per dire ancora una volta grazie al regista di Knoxville. Prima ancora del film in sé, basterebbe in verità anche solo lo straordinario battibecco avuto con il noiosissimo anchorman di Channel 4 News, Krishnan Guru-Murthy, che continuava a tormentare il cineasta con domande da catechista di campagna a proposito della violenza nel cinema. «Non sono il tuo schiavo e tu non sei il mio padrone. Non puoi farmi ballare secondo il tuo ritmo, non sono la tua scimmia ammaestrata», gli ha risposto Tarantino contorcendosi sulla sedia come quando Joe Cabot voleva chiamarlo “Mr. Brown”, che, però, «ricorda un po’ il colore della merda». Ovviamente Quentin se le va a cercare, scegliendo, soprattutto negli ultimi anni, tutti temi politicamente scorretti da sezionare e poi affogare in un mare di sangue sintetico. Meglio: non sono i temi a essere politicamente scorretti, ma l’occhio che il regista vi getta sopra. Prima il nazionalsocialismo e gli ebrei, ora la schiavitù dei neri d’America. Di film sopra ce ne hanno fatti tanti. Ma Tarantino compie un’operazione diversa. Egli taglia il nodo di Gordio della rassegnazione, degli alibi, dei lamenti, delle autoassoluzioni e mette in mano alle vittime designate spade, mazze da baseball e fucili. La storia va a farsi benedire ma porta a fondo con sé anche tutta una retorica colpevolista con tutto il corollario delle facce contrite e delle lacrime pavloviane certificate HuffPost. Tarantino è salutare perché ci libera dal ressentiment nicciano. E pazienza se qualche custode dell’ortodossia lamentosa non lo capisce. L’ultimo in ordine di tempo è stato Spike Lee, che pure non è precisamente una suorina laica del politicamente corretto ma che evidentemente ha a cuore il monopolio dell’originalità. «La storia della schiavitù non è uno spaghetti western alla Sergio Leone. È stato un Olocausto, i miei antenati erano schiavi, rapiti dall’Africa. Io non andando a vedere il film renderò loro omaggio», ha tuonato il regista di Atlanta con una retorica fuori sincrono, a cui sfugge completamente l’ermeneutica liberatoria dell’ironia tarantiniana. «That’s fun», risponde il regista alle domande del giornalista di Channel 4 News. Perché la violenza nei film? Perché è divertente, ecco perché. Messaggio subliminale ma non troppo: fatevela una risata, ogni tanto. Tarantino libera la violenza dalla sociologia così come, a suo tempo, ha liberato la parola dalle seriosità del “dialogo” democratico. Che palle, il dialogo. In questo senso, Tarantino è il vero anti-Habermas della cultura contemporanea. L’agente parlante non è più in cerca di un confronto rischiaratore, non sta cercando di costruire uno spazio pubblico per il libero dibattito democratico, non vuole rimuovere gli ostacoli linguistici al reciproco riconoscimento. Che la parola sia veicolo di verità e di democraticità è un mito moderno con cui occorre farla finita. Noi, in definitiva, parliamo solo per raccontare storie, come Mister Orange/Tim Roth ne “Le Iene”. I personaggi di Tarantino parlano, parlano e parlano ma non per spiegarci come va il mondo, non per donarci una morale. Parlano perché è il ruolo che lo richiede. Ed il ruolo è tutto. Il linguaggio ridiventa fattore di dominio, senza complessi. Vai a spiegare la teoria dell’agire comunicativo a Jules Winnfield da Inglewood. Finisce che ti ritrovi come Brett, l’habermasiano di turno in “Pulp Fiction”. Brett è il giovanotto spaurito con l’aria da bravo ragazzo che però, come tutti i buoni, cerca sempre di fregarti. Jules, il killer interpretato da un magistrale Samuel L. Jackson con la permanente, instaura con il ragazzo un dialogo che ha fatto la storia del cinema. Brett prova a spiegarsi, convinto com’è che un chiarimento razionale possa mettere sempre le cose a posto. Anche Jules chiacchiera molto, ma di cose come i panini del MacDonald’s e di massaggi ai piedi. E infatti al tentativo di chiarimento di Brett replica con un uso totalmente differente del linguaggio: «Mi chiamo Jerda e non è con le chiacchiere che uscirai da questa merda», traballante adattamento italiano della battuta originale: «My name’s Pitt and your ass ain’t talking your way out of this shit». Il contrasto tra le due modalità di uso della parola non potrebbe essere più netto. Alla fine vince Jules e non solo perché, fra i due, lui è quello con la pistola. Vince perché lui parla meglio, parla con più stile, sa stare nel suo ruolo. Fresco di università, convinto di poter fregare il prossimo in virtù delle sue sue doti dialettiche da damerino, Brett si ritrova ora senza riferimenti. Il suo balbettare «Cosa?… Cosa?…» rappresenta il fallimento dell’agire comunicativo. Scimmie ammaestrate, appunto. Feticisti della morale. Tarantino ci libera da tutto questo. Perciò dobbiamo ringraziarlo. Se non fosse stato per lui, probabilmente, oggi staremmo ancora tutti lì a farci solo «pompini a vicenda».