Difficile non dar ragione a Beppe Grillo quando sostiene che, stante queste regole di mercato, o meglio stante l’assenza delle stesse, dovremmo iniziare a slegare il reddito dal lavoro. Cioè trovare un modo e una copertura per permettere ai cittadini di ritirare un assegno mensile senza aver prestato un’opera corrispondente. Senza aver fatto nulla. Un tot al mese, piovuto dal cielo, per non morire di fame. Perché, cari italiani – nonostante le illuministiche fanfare che ancora tromboneggiano di un mai esistito diritto al lavoro – il lavoro non c’è più. E se qualcosa ancora rimane ha già la valigia chiusa e il biglietto in tasca, pronta a congedarci e sbarcare altrove.
Dove? Da un’inchiesta de “Il Fatto Quotidiano” emerge chiaramente che la destinazione preferita è l’Europa dell’Est: la Fiat sposta in Serbia, la Brembo in Slovacchia e Repubblica Ceca, Telecom in Romania e Albania, Geox in Romania e Slovacchia. La modenese Firem, in agosto, ha chiuso baracca per spostarsi in Polonia, all’insaputa dei quaranta dipendenti che, rientrati dalle vacanze, hanno trovato il deserto dei Tartari.
Le motivazioni di questa fuga non sono ignote. C’è un primo livello di atavici problemi che attiene ad una dimensione squisitamente nazionale: burocrazia elefantiaca, legislazione contraddittoria, giustizia dalle tempistiche bibliche, corruzione e clientelismo che minano l’efficienza e la leale concorrenza, un sistema di controllo e di riscossione fiscale ispirato dalle memorie di Torquemada.
Ma, ed è questo il punto nodale, tali storture c’erano anche prima e per giunta amplificate al cubo. Quando l’Italia sedeva a pieno titolo nel G7 e nei fatti possedeva lo status di tigre economica, cioè fino alla prima metà degli Anni Novanta, i guasti di cui sopra erano già tutti lì e lavoravano a pieno regime per rallentarci, ma la barca reggeva e volava a vele spiegate. Come mai negli anni della massima espansione della mafia, delle tangenti quotidiane prese e date praticamente da tutti, delle truffe colossali, dell’evasione fiscale centuplicata da alcuni fenomeni ora estinti (come il contrabbando di sigarette), l’impresa Italia aveva le quotazioni in rialzo mentre, negli anni successivi, si è scesi in picchiata? Cosa è cambiato?
Semplificando per ragioni di brevità, sono arrivate tre macro-sciagure a rovinarci la festa. Dall’alto e senza che potessimo, come al solito, dire o fare nulla. La prima, quasi una premessa, ha una rincorsa lunga ed è il divorzio fra il Tesoro e la Banca d’Italia (1981), un capolavoro dell’ex ministro Andreatta (maestro di Letta) cui dobbiamo l’esplodere del debito. Le altre due sono più recenti: la globalizzazione, che, fra le altre cose, ci ha messo in sleale concorrenza con un esercito di paesi semi-schiavisti, e l’Europa che, oltre a privarci della leva strategica del cambio, ci ha regalato una moneta troppo forte per le nostre esportazioni. E ora, per soprammercato, ci massacra imponendo tasse e riforme insostenibili a tutto vantaggio della sola Germania, decisa a lasciar agonizzare il concorrente più temibile.
Piaccia o meno, l’unica possibilità di salvezza passa da questi nodi. Perché, purtroppo, non convince nemmeno la soluzione proposta da Grillo per quanto l’idea di una liberazione collettiva dal lavoro – da quella condizione di “schiavi salariati” (Nietzsche) felici di esserlo – sarebbe una rivoluzione copernicana auspicabile. Ma per distribuire soldi a pioggia devi stampare moneta e per stampare devi riprenderti la sovranità perduta. Anche così, però, il trucco non funzionerebbe: il denaro stampato non produce inflazione, e dunque risulta sostenibile, solo se ancorato a qualcosa di reale. Per esempio? La produzione in fuga…