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Il documento. Il coraggio di Sergio e la dignità più forte dell’odio di Anita Ramelli

by Leonardo Maisano
28 Dicembre 2013
in Cronache
0

targa RamelliMilano – I terribili anni Settanta, quelli della “lotta antifascista”, quelli dei timori golpisti, quelli soprattutto di Sergio Ramelli “primo della lista”, restano fuori dalla porta. Per qualche minuto nell’aula della seconda corte d’assise, non c’è spazio per l’analisi politica, per le sottili giustificazioni ideologiche al turbolento decennio passato. Per qualche minuto in un aula oramai satura di frettolose riletture del “tempo che fu”, entra una madre. Anita Ramelli Pozzoli. Non c’è odio non una parola per indicare gli imputati, gli ultra di Avanguardia operaia che sprangarono a morte il figlio nel marzo ’75, neppure un “quelli lì”. Non esistono, nella breve deposizione della mamma di Sergio Ramelli. Stretta in un tailleur a quadretti beige e marrone, con una camicia rossa, con grandi occhiali scuri a coprire gli occhi gonfi e la voce soltanto incrinata dall’emozione, attacca così: “Con i suoi compagni di classe aveva rapporti ottimi. Sergio non era un ragazzo violento, aveva maturato una sua idea e per questo era stato preso di mira: insulti, calci, spintoni.. Ma lui per primo minimizzava le cose. L’ultimo anno all’istituto tecnico Molinari fu il più pesante. Gli fecero cancellare delle scritte apparse sui muri della scuola. Ma tutti pensavano che fosse finita lì. Invece continuarono con i picchetti a scuola fino a quando decise di lasciare l’istituto. Quando andò a ritirare il nulla-osta per iscriversi in un istituto privato fu picchiato”.

L’incubo per la famiglia Ramelli era soltanto cominciato, l’aria era avvelenata e l’escalation di intimidazioni cresceva spaventosamente. “Quindici-venti giorni prima – riprende Anita Ramelli (dell’aggregazione n.d.r.) apparirono scritte sui muri: “Ramelli fascista sei il primo della lista”. In casa arrivavano telefonate a tutte le ore e ci facevano sentire Bandiera rossa”.

Quelle telefonate erano un incubo che martellava casa Ramelli, insidiose, continue. Si trasformarono poi in un disgustoso inno alla morte quando qualcuno (gli imputati hanno tutti concordemente negato di averlo mai fatto) chiamò la sera dei funerali di Sergio. “Fu una telefonata di insulti – ricorda Anita Ramelli – e quella sera proseguirono a chiamare fino alle 22”.

Dovette cambiare numero telefonico, ma le minacce continuarono con telefonate ai vicini. Attaccarono manifesti sotto casa, e intimidirono il fratello di Sergio, tentarono addirittura di aggredirlo. Un odio cieco che ha annientato una famiglia. “Luigi (il fratello di Sergio n.d.r.) lo facemmo andare via da casa dopo quanto era accaduto a Sergio”, ricorda Anita Ramelli.

Poi fa un passo indietro, accenna all’agonia del figlio. Un mese e mezzo di flebile speranza che si ravvivò quando per 48 ore Sergio sembrò riprendersi, stare meglio. “Mi guardava presidente, faceva un verso un ah, ha. Non riusciva a parlare, non poteva; però sono sicura, capiva. Gli chiesi se soffrissi per i dolori della testa e lui con il capo mi fece segno di no “.

“Ma in tutto questo tempo – domanda il presidente – lei signora non ha mai avuto un segnale, un gesto da parte degli imputati di qualcuno”. “No, solo verso l’estate mi hanno fatto avere una lettera con qualche firma “. “Signora, io non le faccio domande sul risarcimento del danno (gli imputati lo ricordiamo hanno offerto 200 milioni mai accettati n.d.r.) “. “La ringrazio, presidente, io aspetto giustizia, perché quando ho ricevuto quella raccomandata che mi annunciava l’intenzione di pagare, ho sofferto. Forse è una prassi normale, ma non l’ho trovata poi così giusta”.

La sequenza di lutti dopo la morte di Sergio continuò in casa Ramelli: qualche anno dopo morirono il padre del ragazzo e lo zio.

Anita Ramelli si alza e si incammina verso la porta: è attesa da un’amica e da una ragazza che le assomiglia. E’ la figlia Simona, di 20 anni, ne aveva 8 quando Sergio crollò sotto le sprangate. L’udienza continua, sfilano un’altra decina di altri testi, anche i ragazzi sprangati in largo Porto di Classe, ma le luci sono spente oramai, mentre Anita Ramelli se ne va in attesa di giustizia, dodici anni dopo.

* da Il Giornale del 23.4.1987

Leonardo Maisano

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