In mezzo ai Forconi, etichetta generica sotto cui sono rientrati tutti i manifestanti che hanno dato vita a una tre giorni che ha paralizzato Torino, c’era di tutto. Dagli ultras della Juve a quelli del Toro, dai mercatari agli autotrasportatori, dagli esponenti della destra radicale a quelli dei centri sociali ma, per la maggioranza di loro, teatro di azione è stato il centro cittadino. Le periferie torinesi, nella seconda giornata di protesta le più interessate dai blocchi stradali, sono state, invece, teatro di nuove forme di lotta portate avanti da giovani che normalmente non si occupano attivamente di politica. Sono stati i ragazzi delle periferie, infatti, a costituire qui nuclei spontanei, autonomi e virali, che si costituivano nelle ore di punta del traffico per bloccare con cassonetti dell’immondizia e cartelli stradali le principali arterie cittadine.
L’elenco dei nomi di quartieri che hanno dato vita a questo fenomeno, che come unico paragone ha quello, in scala inferiore e con un tessuto sociale diverso, alle proteste che incendiano ciclicamente le Banlieu parigine, è lungo: va da zona Campidoglio, dove i ragazzi dei giardini della piazza sono scesi in strada, a Barriera di Milano, che ha visto ultras e giovani del quartiere sostenere gli occupanti di piazza Derna durante i tre sgomberi subiti da parte della celere. Anche Torino ovest, lo spicchio di città che seguendo corso Francia arriva fino a Collegno, ha avuto la sua periferia agitata.
Sulla carta, la zona interessata dalle proteste si chiama Pozzo Strada ma per chi ci abita, invece, è Fulminea. I ragazzi della zona la chiamano così per via della squadra di calcio della parrocchia, che ha per stemma uno scudo bianco con dentro un fulmine giallo. Ma, nonostante le etichette ufficiali, è conosciuta con quel nome anche da tutti quelli che ci abitano. La voglia di manifestare, qui, covava sotto la cenere da tempo ma, non avendo mai preso i canali di una politicizzazione autocosciente, ha aspettato le agitazioni di lunedì per venire fuori spontaneamente, senza rischiare di finire irreggimentata all’interno di quegli schemi rigidi che, per chi vive nel quartiere, non risultano graditi.
La protesta di questo gruppo di Forconi è iniziata lunedì sera. Mentre piazza Castello era ancora piena di manifestanti e piazza Rivoli era già stata occupate, una cinquantina di ragazzi della zona si è spostato in mezzo all’incrocio di corso Francia con corso Marche, snodo che verso alle 7 risulta tra i più importanti in città, e, dopo aver bloccato le corsie grazie alla solidarietà di un camionista che ha parcheggiato di traverso il suo camion, e aver barricato le altre entrate con i cassonetti della spazzatura, si sono improvvisati neo-vigili urbani, rallentando il traffico e decidendo chi potesse passare. “Per un giorno, qui, comandiamo noi”, era stato il commento di uno di loro, mentre gli altri ragazzi gestivano il traffico con una precisione militare per permettere a un’ambulanza di superare il blocco senza subire rallentamenti. “Chi ha una bella macchina evidentemente ha i soldi e dovrà aspettare di più”, detta come regola un altro di loro prima di dire, all’ennesimo che cerca di convincerli ad aprire il blocco raccontando di dover raggiungere la madre malata al pronto soccorso, “Anche tu devi andare in ospedale? Deve esserci stata un’epidemia. Passa, passa”.
Ma quello che doveva essere solo un giorno, alla fine, è stato il primo di altri. Probabilmente per via del condizionamento esterno che vedeva tutta una città in fermento o solo perché, per la prima volta, ragazzi mai interessati da esperienze dirette di militanza si sono trovati a rappresentare un soggetto sociale con cui fare i conti, l’idea di continuare i blocchi stradali per chiedere lavoro e attenzione è diventato l’argomento centrale nel bar della zona. E proprio dal bar sono ripartiti il giorno dopo, il secondo di proteste, per andare a occupare prima corso Marche e poi piazza Massaua. Il secondo giorno, però, è stato anche quello in cui le autorità hanno deciso di non tollerare più le iniziative non autorizzate e, quindi, i ragazzi, hanno dovuto confrontarsi con le camionette dei Carabineri, arrivate sul posto per sgomberarli. “Molti di noi sono disoccupati – racconta Marco – e lo Stato, invece che ascoltarci, invia in zona reparti anti-sommossa. Ma non hanno capito che abbiamo parecchio tempo a disposizione e che ci ritroveranno in strada”.
La sera, dopo lo sgombero, i ragazzi della zona si ritrovano al bar per organizzare un blocco la mattina successiva. Non sono professionisti del disordine e quindi non si accorgono dei gruppi di agenti della Digos che stazionano agli angoli della strada per alcune ore. E, in realtà, nemmeno si rendono conto dei rischi potenziali che hanno corso. Questo perché sono profondamente convinti di aver fatto una cosa giusta, come spiega anche Antonio, il capo della compagnia di amici: “Non mi importa se viene la polizia. Qui devono iniziare ad ascoltarci. Io ho un negozio ma sono due giorni che lo tengo chiuso perché credo in questa protesta e penso che prima o poi debbano iniziare a darci retta”. L’unica cosa che nessuno del gruppo vuole sentire nemmeno da lontano è la parola “politica”. “Nessuno di noi fa politica e nemmeno ci interessa – spiegano -. Nei palazzi ci sono soltanto dei ladri e la politica non è una cosa pulita”. Vagli a spiegare che, senza volerla fare, hanno costituito un laboratorio politico che ha pochi precedenti nel capoluogo piemontese.
Tratto da Futura.unito.it