I “miti” non si discutono. Pervasi come sono da un’aura di fideistica irrazionalità, essi sfuggono a qualsiasi “ragionamento”, parlano all’interiorità e ai sentimenti, sono – per dirla con Sorel – “espressioni di volontà” supra-intellettuali. La figura di Nelson Mandela appartiene a questa categoria: mito-vivente, lo è ancor più da morto, come dimostrano i tributi che ha ricevuto da tutto il mondo e che riceverà in occasione dei suoi funerali.
Capi di Stato e di Governo, sovrani, dignitari e ministri, personalità della cultura e dello spettacolo sono in Sudafrica per rendere l’estremo omaggio all’ eroe della lotta all’apartheid. Il Paese si sta preparando a celebrare “funerali di stato storici e senza precedenti” – ha promesso il segretario generale della presidenza sudafricana Collins Chabane.
Dopo verrà il tempo delle analisi e delle critiche nei confronti di questa figura insieme emblematica e contraddittoria.
Assimilato ai destini di un popolo discriminato dalle origini, egli apparteneva in realtà alla nobiltà tribale della famiglia reale dei Thembu, fatto questo che gli permise di essere ammesso alla Fort Hare University di Alice, un istituto riservato alla élite nera.
Figlio di una terra in cui il destino individuale era segnato dal colore della pelle, Mandela arrivò ad iscriversi alla facoltà di legge della University of Witwatersrand di Johannesburg, esercitando poi la professione di avvocato. Condannato all’ergastolo, fu in grado, anche nei ventisette anni di carcere, di imporsi quale figura carismatica del movimento di lotta all’apartheid.
Leader di un movimento, l’ANC (African National Congress), dai connotati “radicali”, che, negli Anni Settanta-Ottanta, si era dato una struttura paramilitare, organizzando azioni di sabotaggio, Mandela ebbe la capacità di “traghettare” il Sudafrica fuori dal sistema dell’apartheid senza particolari traumi.
Il suo “mito”, irrobustitosi negli anni del governo dei “bianchi”, tende paradossalmente a sbiadirsi allorquando al potere arrivano i suoi successori, personaggi ideologizzati come Thabo Mbeki o decisamente violenti come l’attuale Jacob Zuma, eletto nel 2009, nonostante le accuse di corruzione, frode e riciclaggio di denaro sporco e durante il cui mandato presidenziale , nell’ agosto 2012, la polizia è arrivata a sparare contro i minatori in sciopero, ammazzandone una trentina.
Come ha scritto Carlo Cattaneo (“Zuma: il ‘non erede’ di Mandela”, “L’Indro”, 6/12/2013): “Lo scorso 29 novembre, il colpo di grazia a quel che era rimasto di dubbi sulla figura di Zuma: ‘Mail and Guardian’ ha pubblicato un estratto di un rapporto, redatto da uno dei più importanti istituti anti-corruzione del Sudafrica e ancora non pubblico, dal quale si ricava che il Presidente avrebbe utilizzato 20 milioni di dollari di fondi pubblici per ristrutturare la sua residenza privata, composta da venti alloggi per la polizia, due eliporti, una piscina e persino un ospedale privato. Pubblicazione che, ovviamente, ha scatenato l’ira di migliaia di sudafricani, i quali, attraverso una petizione online, chiedono l’impeachment del Presidente”.
Lungi dall’essere veramente “pacificato” il Sudafrica del dopo Mandela è ancora il Paese delle discriminazioni sociali, dei quartieri-ghetto, abitati dai neri, con forti tassi di analfabetizzazione e di disoccupazione, dei bianchi “accerchiati” nelle loro residenze blindate a Pretoria est, dell’apartheid alla rovescia, segno di un equilibrio politico e sociale sempre più delicato.
In questo “contesto” lo slogan “una vita migliore per tutti”, lanciato dall’ ANC durante la campagna per le elezioni presidenziali del 1994, appare uno sbiadito ricordo. Allora Johannesburg accolse i leader da ogni continente giunti per festeggiare Nelson Mandela che assumeva la carica di primo presidente nero del Sudafrica. Oggi negli stessi luoghi l’appuntamento è per i funerali di “Madiba”, mito e monumento del Sudafrica certamente di ieri, non siamo certi di domani. Da soli i “monumenti” non bastano a garantire un avvenire alle nazioni.