Zachar Prilepin è considerato uno dei migliori scrittori della nuova generazione russa, il «Gorkij del 2000». Una definizione che si adatta, più che al suo linguaggio vivido e sferzante, alla passione per i temi sociali, per la denuncia: la sua Russia è popolata di ragazzi arrabbiati delle periferie, di soldati mandati in Cecenia, di vittime e carnefici, di miseria e violenza. Il suo romanzo Scimmia nera, appena pubblicato in Italia da Voland (pp. 271, € 15), narra di una nuova generazione di bambini, killer senza pietà, e il protagonista, indagando le origini di questa agghiacciante «mutazione», esplora un mondo senza speranza: interi condomini di alcolizzati, poliziotti corrotti e violenti, ragazze costrette a prostituirsi alla stazione, una Russia che più che di Gorkij sa di Dostoevskij. Personaggio carismatico che si è cimentato nel giornalismo, nella musica, nel cinema, in tv, Prilepin è anche – riprendendo un’altra consolidata tradizione russa – un opinionista e un militante politico, vicino al partito nazional-bolscevico di Eduard Limonov. Un anno fa ha fatto scalpore la sua lettera a Stalin nella quale lo ringraziava per aver fatto della Russia «una potenza senza pari» e si scagliava contro i liberali che hanno «svenduto» la gloria passata.
Cosa è Stalin per un russo di 38 anni come lei?
«È una figura che si contrappone agli errori colossali del neo-liberalismo: 70 milioni di persone gettate in miseria, la guerra in Cecenia, il parlamento preso a cannonate da Eltsin nel 1993. Tutto giustificato perché “con Stalin sarebbe stato peggio”. Alla sinistra è stato chiesto di pentirsi del passato. Stalin diventa il rifiuto del social-darwinismo degli ultimi vent’anni. Ovviamente non significa giustificare le purghe. È un simbolo. Di ordine, di una certa rigidità, di un potere che ha zero edonismo, lui che non ha lasciato nulla, solo un cappotto militare e un paio di stivali. È un riscatto dall’umiliazione. È qualcosa di religioso. Come diceva Iosif Brodsky, “il mio è il Dio del Vecchio testamento”, un Dio di violenza».
E anche una soluzione?
«La soluzione è una nuova élite che non viene scelta per i soldi. Una nuova aristocrazia, militare, spirituale, scientifica, religiosa anche. Il cambio del paradigma, coltivare coraggio e intelligenza, non indulgere nelle debolezze umane ma cercare di superarle».
E da dove dovrebbe venire fuori?
«Certo, ci vorrebbe una rivoluzione. Un nuovo potere che coltiva una aristocrazia metafisica, un esercito di bambini colti e preparati, bastano 20 anni e il 3% della popolazione. Si tratta di rinunciare alla matrice liberale, all’idea che l’individuo viene prima della società e che la tua libertà finisce dove comincia la libertà del prossimo. Il liberalismo può funzionare in condizioni protette della serra europea. Non funziona in Russia».
Non le sembra la riedizione di un dibattito molto vecchio, slavofili e occidentalisti, e dell’idea che la Russia non può essere «un Paese normale»?
«Perché dovrebbe? Ci dicono che continuiamo a girare per una selva invece di prendere la strada maestra, ma perché non dovremmo restare nella selva?».
Anche quella dell’ingegneria sociale non è un’idea nuova.
«In realtà, anche il liberalismo, come il socialismo, auspica un uomo nuovo, solo che lo vuole spinto dai peggiori istinti, in nome del profitto e del successo».
Chi alleverà la sua aristocrazia, visto che il mondo degli adulti che lei racconta è fatto di alcolizzati, corrotti, violenti, bugiardi e approfittatori?
«Ci sono i giovani nati e cresciuti in Urss, che negli Anni 90 sono diventati la generazione “si sono spartiti tutto senza di me”. Sono i 30-40enni, non sono bacchettoni come i sovietici, ma non hanno nemmeno illusioni liberali».
E quelli che vengono dopo?
«Non hanno ideali sovietici, nessun ideale. Chi aveva ideali in quell’epoca non si è riprodotto. Tutti a lavorare, commerciare, trafficare, otto impieghi diversi, tutti a guadagnare soldi perché ci avevano detto che si faceva così. I loro genitori hanno vissuto le convulsioni di un Paese in cerca di identità, non avevano nulla da trasmettere ai figli, né tempo per farlo».
Ma se l’Urss era così piena di ideali perché è crollata in un giorno e nessuno, in quel momento, l’ha rimpianta?
«Ogni impero prima o poi si suicida. Era un Paese governato da vecchi, avevano esagerato con i divieti ridicoli. E poi, non si era capita la portata del fatto. Mio padre tornò a casa e disse “è successo qualcosa di strano”, e mia madre rispose “vabbè, ma vedrai che sarà come prima”, e mio padre scosse la testa e disse “temo di no”. Era l’idealismo-infantilismo sovietico, la fede che non poteva accadere nulla di male, tutto si sarebbe risolto. Ma è sempre meglio dell’edonismo liberale».
Cosa propone?
«La nazionalizzazione delle risorse naturali. Ci vorrebbe anche lo spostamento della capitale da Mosca oltre gli Urali, in quella parte del Paese che si sta spopolando mentre dall’altra parte del confine c’è la Cina che ha appena permesso alle famiglie di avere il secondo figlio».
Putin non corrisponde al suo modello?
«Il guaio non è l’autoritarismo putiniano, ma il neo-liberalismo. Putin non è un dittatore, cerca di mostrarsi duro perché sa cosa vuole la gente, e in effetti ci sono i detenuti politici e non si possono creare veri partiti di opposizione. Ma non è un vero duro, solo dall’Europa sembra che passi il tempo a sparare ai giornalisti. Questa è un’élite i cui interessi, i soldi, le case, i figli, i cani, le suocere, sono fuori della Russia. Non è un’élite russa».
La soluzione è il nazionalismo?
«Assolutamente no. Il problema non è etnico, è sociale».
Non ho capito se in questa sua nuova Russia ci saranno le elezioni.
«Secondo me, no. Altri miei compagni ritengono di sì. Oddio, quanto penso a Gorbaciov e a tutta quella generazione di idioti… Stalin risolveva il problema eliminandoli, Dio ce ne scampi però. Forse meglio le elezioni».
E come verrà insegnato Stalin nelle scuole?
«Esattamente come adesso, con le luci e le ombre, come ogni altro personaggio storico e politico. Basta con i culti».