Senza una critica fattiva al capitalismo ogni idea, per quanto vera per aspirazione e corretta nella sua formulazione, perde oggi il suo significato, tumulata nella cementificazione, nell’impossibile mutamento dell’unico stile di vita possibile; appare così necessario, per via eretica, tentare un ultimo dialogo nietzscheano fra i residui nichilistici di destra e sinistra.
Si sbagliava Alain De Benoist quando, fra le pagine delle Idee a posto (Akropolis, 1983), attualizzava la nota intuizione reazionaria del “liberalismo e comunismo, due facce, una moneta”; il fondatore della Nouvelle Droite, infatti, paragonando la “fine della storia” (meccanica sociale liberale) alla “scomparsa dell’umano nel non-umano” (strutturalismo marxista), non risolveva la questione di fondo. Questione irrisolta e quanto mai presente: si esce dal non-divenire, dalla palude culturale e biologica (si anche biologica!) del capitalismo? Insomma si esce da quella che Nietzsche chiamava semplicemente decadence?
De Benoist, pur modernizzando gli strumenti intellettuali della destra (“una nuova antropologia”), non offriva nulla di diverso dal ricordo culturale della parola “aristocrazia”; Althusser, Levi-Strauss, Foucault e Deleuze, così, restavano insuperati nella presa di petto del problema nichilista. Sia il marxismo tutto scientifico del primo che l’antropologia “disumana”, anarchica e “desiderante” degli altri, mantenendo la prospettiva progressista, s’imponevano di incalzare il capitalismo sul suo stesso piano: l’annullamento dell’uomo.
A questi autori, genericamente percepiti come maoisti, va dunque riconosciuto il merito di aver, da sinistra, studiato e progettato un termine al calvario proprio dello spettatore della Verità del Sileno; e di averlo fatto forse meglio, in modo più appropriato e vitale, di chi ha sempre sbrigativamente definito liberalismo e comunismo come speculari. Nel nostro ambiente culturale, è forse stato solo Franco Freda, ne La disintegrazione del sistema (Ar), a cogliere la differenza dinamica fra l’utopia socialista (quella che Jünger archetipizzava nel ricordo dell’età dell’oro) e la “fine della storia” come eterna cristallizzazione di un molle genere umano.
Non è un caso che destra e sinistra, volendo restare nell’alveo quotidiano e mercantile della società liberal-democratica, abbiano potuto si mantenere le loro velleità neo-metafisiche, a destra, (si pensi, esempio fra mille, al concetto di universalismo bertoricciano applicato all’Italia globalizzata, cioè stuprata) e di liberazione, a sinistra, (come per il matrimonio omosessuale come ultimo stadio dell’imborghesimento dell’eros) salvo dover abbandonare ogni critica fattiva al modello capitalista. Così entrambe le istanze radicali, cioè istanze di cambiamento, si sono andate definitivamente sciogliendo nella società dello spettacolo profetizzata da Debord.
Giungiamo dunque ad una fase post-radicale, dove non solo non è più possibile superare in sintesi ciò che non esiste più (destra e sinistra), ma dove non è più possibile nemmeno immaginare di ricostruire politicamente pezzi di concetti di destra e di sinistra (élite, aristocrazia, ordine, dio, libertà, eguaglianza, progresso, diversità) all’interno della società globalizzata.
Finita l’epoca dei fascismi e del comunismo hegeliano, ci troviamo in pieno meriggio. Nietzsche, come di recente osserva Franco Cardini, resta l’unico punto di riferimento. Lo si guardi da dove si voglia, volontarista o desiderante, l’Übermensch resta l’unico orizzonte possibile per un dialogo vitale, non preordinato, non mercantile. In divenire.