E’ stato da poco stampato per le edizioni Tabula fati “Le aritmie del cuore” del poeta barese Daniele Giancane, un volume che raccoglie poesie nuove, riscritte o sparse nel corso degli anni in antologie, plaquettes, riviste. Diciamo subito che questo volume è una sorta di diario lirico, dove l’autore affronta con toni volutamente dimessi, ma con grande sincerità e incisività, temi tra i più vari, dall’amicizia all’eros, dall’impegno civile contro una cattiva modernità alla meditazione sulla poesia e sul tempo che fugge. Non a caso la raccolta si apre con una professione di fede nella poesia, “sì, proprio questa infinitesima / Cosa / che sempre ci accompagna”, “il fuoco che riscalda! / nei giorni di pioggia / e di tormenti”. A ben vedere, si tratta di uno straordinario omaggio alla sua vocazione di poeta manifestatasi fin dal 1969 e mai tradita. Già il titolo è significativo, fa di un accadimento personale e di una sofferenza vissuta una grande e bella metafora della vita di ciascuno, che è dramma, con i suoi urti e i suoi perché, con le sue soste, i suoi ritorni e le sue improvvise accelerazioni. Il poeta che mette a nudo il suo cuore, quando dona agli altri un verso ben fatto, dimostra che la poesia non è inutile perdita di tempo, non è semplice gioco o “vuoto mormorare / parole subito nel vento sperse” , poiché testimonia una volontà di non cedere all’andazzo del proprio tempo, di non omologarsi, di voltare le spalle a sordidi interessi e al conformismo imperante, facendo riferimento invece ad una “lealtà diversa”, quella verso il proprio sé. Infatti, l’uomo che, come ricordava Ortega y Gasset è “un naufrago nel mondo”, cioè radicale insicurezza e solitudine, ha sempre bisogno di cercare sé stesso e ritrovarsi (la poesia è una di queste vie insieme alla filosofia e alle altre arti e alla scienza).
L’uomo ha cioè bisogno di interrogare le cose che lo circondano per sapere come regolarsi, quale atteggiamento prendere nella battaglia della vita, che quotidianamente e incessantemente pone problemi e, tra tutti, il problema fondamentale, che è quello di comprendersi, di incontrare sé stesso. E da qui sorge il bisogno della compagnia, degli amici, dell’amore, del fare poesia e del confrontarsi con gli altri, magari in una comunità di poeti! Se “le foglie e i gatti, / il vento e il cuore / entrano come predoni / nell’atrio imbambolato” potrà capitare che i poeti si confondano con il cielo, “anzi siamo cielo / aria / ombre / nel patio addormentato.” Condividendo un bicchiere di buon vino rosso potrà succedere che cadano i muri fatti di infingimenti e segreti. Ma anche coi poeti-amici che non ci sono più c’è un legame che non cessa con la morte , come Giancane suggerisce nel suo struggente Blues nostalgico o nella lirica L’amico poeta defunto mi rimprovera dal sogno con la sua sottile eco oraziana. Contro la disumanizzazione dell’arte e dei linguaggi (oggi quasi sempre asserviti al potere economico), Giancane rimette al centro l’elemento umano, smaschera i falsi miti come quello del progresso: “Sì, lo chiamano progresso / produrre all’infinito / automobili e cacciabombardieri, // aumentare il benessere senza fine / e l’immondizia nei cassonetti”; o come quello del successo: “se vuoi gli onori del mondo / la sfolgorante carriera, il denaro a fiotti / il timore dei subalterni, il reverente prestigio / … E’ facile la ricetta… / devi rinunciare al sé che ti pungola da dentro / e vuole emergere dal fondo, / reprimerlo nei recessi più nascosti , indossare la maschera che altri vogliono, / divenire cera molle, a piacimento plasmabile”. Ed ecco l’eros con la sua magia, la sua forza irrefrenabile, la sua inverecondia e la sua tenerezza: lei, che si spoglia e con il suo sguardo seducente illumina “il nero del cielo”, “è nuda come il mare! E’ tenue come l’alba!” E qui il poeta nota con benevola ironia che dopo le loro urla di piacere “stanno, adesso, / esausti, / immobili e felici,/ e guardano il cielo stellato / dalla finestra / rimasta incautamente / spalancata.” E poi. In un felice sguardo tra storia e cronaca ci sono le città elettive, Belgrado “umile e furente”, Split “tra calli, /archi ad ogiva”, Scutari “ninfee a perdita d’occhio, / alberi / e alberi / inzuppati d’acqua”. Ed infine lo stupore, che ci dona un’inattesa fanciullezza ed è preludio d’una ragione vitale e storica: “Che sarebbe il mondo senza il mare?”, si domanda il poeta. Ed ancora: “sappiamo chi ha inventato il fuoco, / il ponte, la ruota, la barca / che lieve dondola sul mare?”, “Chi furono quei divini poeti / che dettero nome al mondo?” Ecco: se “tutto è perso, è perso / nelle brume della storia”, resta il canto del poeta a ricordare la grandezza e la fragilità dell’uomo. Dicevamo della semplicità della scrittura poetica di Giancane, della sua estrema comunicabilità (l’arte è comunicazione, diceva il grande Ezra Pound!). Ma va sottolineato che la semplicità non è immediatezza o assenza di elaborazione, è, al contrario, conquista interiore, affinamento, frutto maturo di un assiduo lavoro sulla parola e sul verso, che implica anche un’approfondita conoscenza letteraria. In questi versi Giancane non ricerca l’elevatezza formale, non disdegna ciò che è banale, ma va dritto al cuore delle cose e coinvolge il lettore. Come Céline, mette in principio l’emozione.
@barbadilloit