Nelle prossime ore si saprà se il voto a Kosovska Mitrovica sarà annullato, ma la tensione di queste ultime ore – le aggressioni a un candidato sindaco serbo, gli spari nei mercati a nord del Kosovo – sono il segnale inequivocabile di una polveriera che ancora giace sotto le ceneri della guerra fra serbi e albanesi.
Un milione e settecentomila circa gli aventi diritto al voto e un’affluenza alle urne che è stata scarsa (meno del 48%). C’era forse d’aspettarselo da una regione che a nove anni dalle ultime recrudescenze non sembra ancora pronta a camminare con le proprie gambe nonostante quattordici anni di missione Nato (KFor). Del resto che queste elezioni, le prime dalla dichiarazione di indipendenza del Kosovo, non sarebbero state una passeggiata lo si era capito dalle bombe che in quest’ultimo mese erano state piazzate sul ponte di Austerlitz (sul quale dal 2011 esiste una vera barricata di terra) che divide il nord (a maggioranza serba) dal sud della città (a maggioranza albanese) di Mitrovica.
Oltre ventottomila gli osservatori schierati in un voto considerato un test per lo storico accordo raggiunto ad aprile con la mediazione dell’Unione Europea volto a normalizzare le relazioni tra Serbia e Kosovo. Test non brillantemente superato, che riapre vecchie ferite e che soprattutto apre nuove riflessioni su quella che resta una polveriera etnica in un punto geograficamente strategico per traffici criminali, come quello della droga che dal Afghanistan, attraversa il Kosovo per poi arrivare in Europa. Un banco di prova per il Kosovo che ben presto le forze della Nato lasceranno nelle mani dei kosovari (come sta già avvenendo per alcuni siti a rischio d’attacco, protetti ora dalla polizia del posto) che devono convivere anche con la parte nord della regione, quella che anche per prossimità geografica resta maggiormente legata alla madrepatria Serbia.
Perché se nel resto del Kosovo i serbi restano relegati in piccole enclavi (come Siga e Brestovik ripopolate dai serbi tornati in patria nel 2005) il nord resta una terra altra, dove si parla esclusivamente il serbo e non l’albanese, dove la moneta usata è il dinero e non l’euro, dove sventolano con orgoglio le bandiere serbe. Dove il Kosovo sembra essere ancora lontano. Certo, sarà importante capire chi è andato effettivamente a votare e sarà importante sapere cosa ne pensano i giovani, quelli che hanno votato per la prima volta e che non hanno vissuto il terrore di tornare a casa e trovarla bruciata. Quei giovani che non hanno lavoro, che vivono fra cartelli che osannano l’Europa, un’Europa davvero così lontana da quel Kosovo che resta ad una sola ora di volo dall’Italia.