chi le scrive è un figlio dell’acciaio. Mio padre, tarantino matricola numero 16, e mia madre, genovese figlia di un genovese che aveva costruito Cornigliano, si sono conosciuti più di quarant’anni fa nello Stabilimento di Taranto. Mio padre l’ho perso a 13 anni, per una malattia non estranea a cause di lavoro.
Vede, avrei avuto buone ragioni per iscrivermi ai movimenti del “chiudiamo tutto”. Ma non l’ho fatto. Non l’ho fatto per rispetto della storia della città dove sono nato e, non l’ho fatto perché, quando scrivevo un lavoro teatrale dedicato all’epopea dell’acciaio tarantino, mia madre mi ha detto «tuo padre credeva in quello che faceva». Forza, orgoglio, rispetto per la storia, mi hanno dunque spinto a difendere il diritto di Taranto ad avere nel 2013 un’industria che produce acciaio pulito. L’ho fatto da cittadino e da meridionale innamorato della propria terra, disinteressatamente, da orfano dell’acciaio che ancora conserva il casco bianco di suo padre come ricordo di un grande lavoratore, e questo mi è costato molto in termini personali, per la virulenza e la cattiveria degli attacchi ricevuti da chi mi ha detto di tutto per aver contestato il populismo della paura mascherato dietro le bandiere dell’ambientalismo.
Il motivo di questa lettera aperta, però, è un altro. Un anno fa ho contattato l’Ilva perché, con il supporto di Rai Cinema, si era avanzata l’idea di realizzare un documentario dentro lo stabilimento di Taranto. Gli italiani e talvolta anche i tarantini dimenticano che l’Ilva di Taranto è l’ultimo grande insediamento industriale italiano e che Taranto è l’ultima città operaia italiana, avamposto anch’esso in crisi di quel deserto imprenditoriale che il nostro Sud rischia di diventare. Basta questo per rendere l’acciaieria tarantina un luogo strategico e simbolicamente enorme anche dal punto di vista della memoria nazionale, incubatore e testimonianza di un mondo che sta scomparendo appresso alla tradizione industriale italiana.
Per questa ragione, assieme a due tarantini – una scrittrice, Flavia Piccini, un fotografo operaio, Peppe Carucci – e una brava regista, Elisa Fuksas, abbiamo preparato un progetto di documentario in cui intendevamo raccontare una giornata di vita operaia nello Stabilimento «che non chiude mai», ridonando centralità narrativa alla fabbrica, a ciò che accade al suo interno, capovolgendo la narrazione egemone con cui la storia dell’acciaieria è stata proposta nell’ultimo anno e mezzo.
Abbiamo dunque presentato il progetto all’azienda, chiedendo semplicemente l’autorizzazione a effettuare qualche giorno di riprese dentro lo stabilimento. Abbiamo spiegato chiaramente che, a differenza della moda giornalistica dominante, il nostro obiettivo era ed è di tipo documentaristico: osservare, raccontare e, appunto, documentare la vita dentro un gigantesco e strategico insediamento produttivo, vecchio ormai più di cinquant’anni, attraverso volti, voci e storie degli operai, quelli che già Paolo VI definì “invisibili” e che oggi appaiono per lo più insicuri nella propria identità e spaventati rispetto a ciò che il futuro gli riserva. E noi con loro.
Nessuna volontà di andare a caccia di scoop, insomma. Tra l’altro, magari con sensibilità diverse, siamo tutti convinti che la chiusura dell’Ilva a Taranto costituirebbe un disastro non più recuperabile.
La storia del documentario, però, ha avuto vita breve. Dopo un mese intenso di telefonate, trattative, tentativi di persuasione, dopo aver illustrato con chiarezza gli scopi del lavoro che volevano realizzare, ci è stato detto “no”, e senza troppi complimenti. Le ragioni di questo diniego, a parte la questione – peraltro risolvibile – del sequestro degli impianti, non ci sono mai state del tutto chiare, a parte la diffidenza ormai strutturale dei consulenti Ilva verso l’ingresso di telecamere in Stabilimento.
Spero che quella fase, e la meccanica di rapporti che l’ha contraddistinta, sia archeologia della storia dell’Ilva. Tutto quello che è successo nell’ultimo anno, a partire dal Suo arrivo e poi da quello di Edo Ronchi, credo abbiano convinto l’Azienda che proseguire in una volontà di nascondimento di ciò che accade all’Ilva rappresenti una strategia sbagliata e non pagante in termini di comunicazione, di efficienza, di responsabilità sociale, di rapporti con il territorio. Penso che l’apertura all’esterno, a un nuovo rapporto con il tessuto sociale tarantino e, in senso lato, con l’opinione pubblica, da Lei perorata, rappresentino una fase nuova e sfidante per il mondo dell’acciaio.
Le trafile burocratiche le abbiamo già attraversate e così scelgo di chiederglielo pubblicamente: dottor Bondi, consenta a un figlio dell’acciaio di raccontare la fabbrica dove, in un certo senso, sono nato anch’io accanto a coils, bramme e tubi. Ma se questo conta poco, permetta finalmente a un gruppo di giovani, animati esclusivamente da un intento documentaristico, di realizzare un lavoro che, a distanza di decenni dai film industriali degli anni Sessanta, può dare il suo buon contributo alla memoria e all’immaginario nazionali. L’Ilva di Taranto, l’acciaio, i suoi lavoratori, i suoi martiri, lo stesso ricordo dei cinquecento lavoratori morti nel Siderurgico dal 1961 a oggi per fare l’acciaio italiano, i tanti dialetti meridionali che si sono incontrati e confusi su quegli impianti, meritano qualcosa di più delle cronache giornalistiche. Sono storia profonda di una terra e di una nazione.
Uno stabilimento si può sequestrare o commissariare; la memoria poderosa e gloriosa che contiene, no.
Attendo una sua risposta, fiducioso.