Nei giorni scorsi ho provato più volte a scrivere un ricordo di Pino Rauti, senza venirne a capo. Sbandavo e sbando tra ricordi troppo personali per essere di un qualche interesse e riflessioni politiche che, francamente, non mi appassionano granché. I primi mi suggeriscono che forse, prima ancora che Pino, rimpiango la mia giovinezza, l’entusiasmo della militanza politica, la scoperta dei primi libri, quelli che mi avrebbero cambiato la vita. A ricostruire il percorso culturale e politico di Rauti ci hanno pensato valorosi amici che, pur avendo intrapreso strade diverse, hanno sottolineato il valore dell’uomo, la contagiosa quanto inesauribile curiosità verso temi sino a quel momento inesplorati a destra, lasciando appena trapelare un affettuoso rammarico per l’inadeguatezza del politico. Non sono mancati, come in altre occasioni, gli avvoltoi della carta stampata. Avvoltoi vecchi e giovani, a loro agio tra i rifiuti della disinformazione. Niente che potesse rimettere in discussione quella dignità che Rauti ha difeso in tribunale, nelle piazze e in parlamento. Non ha certo bisogno di avvocati d’ufficio o eredi illegittimi. Chi s’è affrettato a ritagliarne frasi estrapolandole dal contesto in cui Pino le aveva pronunciate o scritte, si rimetta semmai a studiare o si fermi a riflettere. C’è poco da arrampicarsi tra le righe per rivendicare improbabili coerenze e imbarazzanti autogiustificazioni: excusatio non petita, accusatio manifesta. Prendiamone atto con serenità. Non siamo andati oltre e, del resto, non c’è riuscito neanche Pino, risucchiato suo malgrado in quel piccolo mondo neofascista che vive, si fa per dire, nella trincea di una memoria statica e impolitica, che lo stesso Pino, decenni fa, ci sollecitava a lasciare dietro le spalle, spegnendo fiamme e pensando nuove forme di aggregazione oltre la destra e la sinistra.
I morti non andrebbero usati per colpire i vivi e per questo è inaccettabile la cagnara, spontanea ma non per questo tollerabile, che i soliti reduci in servizio permanente effettivo hanno allestito nei confronti di Gianfranco Fini. Che poi altri, con rapace tempestività, si siano affrettati a interpretare quella grottesca contestazione come rappresentativa dell’intera area politica di destra, decretandone la morte, la dice lunga sul come la morte di Rauti si sia prestata a troppe strumentalizzazioni. Litigarsi l’eredità culturale di quelle straordinarie intuizioni, tanto lungimiranti allora quanto attuali oggi, oltre a essere di cattivo gusto, non avrebbe senso. Le idee che mossero il mondo, le idee di Pino, sono dove sono sempre state, nei suoi libri, nei suoi articoli, nei suoi discorsi così ricchi di suggestioni affascinanti.
Lasciamolo riposare in pace, dopo che in vita l’avevamo scordato. Quando, qualche anno fa, un’ipotesi di sua ricandidatura con il centrodestra tramontò – qualcuno lo ritenne impresentabile o, come suol dirsi, si trattava di una questione di opportunità? – non scendemmo in piazza. Nel frattempo c’era chi si è accomodato in parlamento, chi s’è esercitato nei distinguo pur di fare carriera, chi ha cambiato cavallo e chi se n’è andato, portando con sé qualche rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato e, soprattutto, non potrà più essere.
Restano i ricordi, una macchina che sfreccia sull’A24 vero l’Abruzzo. Sfreccia per modo di dire, è una utilitaria e il rombo assordante è dovuto all’inesistente finestrino anteriore, quello dalla parte del guidatore, rattoppato alla meglio. Al volante c’è Gianni Alemanno, accanto a lui Pino Rauti non ancora suo suocero e dietro io, un po’ preoccupato, per via del finestrino. Altre preoccupazioni non ce n’erano. Non ambivamo a nulla se non a diventare ciò che eravamo. Non avremmo neanche lontanamente immaginato che di lì a qualche anno saremmo stati chiamati a governare città, province e regioni, addirittura il Governo. Se mi avessero detto che il ragazzo alla guida sarebbe un giorno diventato sindaco di Roma, mi sarei fatto una sonora risata e probabilmente se la sarebbe fatta anche lui. Oggi no, non ho voglia di ridere.