Non saremo mai abbastanza grati a Sergio Romano per la costanza e il rigore con cui ricorda il valore dell’interesse nazionale ed europeo – e l’importanza della sua declinazione in politica estera – alle classi dirigenti di un’Italia che non può avere come destino l’essere per sempre “colonia”. Nella rubrica quotidiana sul Corriere della Sera, l’ambasciatore è stato interrogato da due alunni del liceo classico di Maglie (Lecce) in merito all’editoriale scritto il 5 ottobre sulle elezioni americane. Il dilemma per i due giovani studenti era scoprire chi preferisse lo storico tra Obama e Romney.
Nella risposta Sergio Romano ha puntualizzato che nell’articolo, senza prendere posizione, aveva cercato “di misurare e pesare le forze in campo, i fattori che possono influire sulla vicenda di cui sta scrivendo e determinare l’esito finale di un conflitto, di uno scontro politico, di una crisi economica”. E aggiungeva: “Mi sono chiesto, in secondo luogo, quale sarebbe stato l’effetto del dibattito sul risultato delle elezioni presidenziali. Ho segnalato lo stile teatrale che la politica ha assunto grazie alla televisione, non soltanto in America, e mi sono chiesto infine se il giudizio dello spettatore corrisponda sempre alla scelta che l’elettore farà al momento del voto. Naturalmente la distinzione fra le due categorie non è mai netta. Anche quando vuole essere soltanto «analista», l’autore di un articolo lascia spesso intravedere i suoi desideri e i suoi pregiudizi. Ma nel caso delle elezioni americane mi sarebbe difficile esprimere preferenze”.
Qui emerge lo spessore culturale raffinato che rappresenta l’unicità di Romano nel panorama dei commentatori nazionali, postulata attraverso una sobria lezione di patriottismo: “Ciascuno dei due candidati ha il suo profilo politico ed entrambi cercano di distinguersi offrendo agli elettori ricette diverse. Ma il vincitore sarà sempre e comunque il presidente degli americani. Quando sarà alla Casa Bianca, l’eletto farà la politica che gli sembrerà più conforme agli interessi del Paese e coltiverà quella parte della società americana da cui è stato scelto. Se deciderà di fare una guerra, cercherà di raccogliere intorno a sé il maggior numero possibile di alleati. Ma non chiederà il permesso all’Europa e non consulterà gli europei nel corso del conflitto. Se riterrà che una certa politica monetaria sia indispensabile per la prosperità degli Stati Uniti, non si chiederà, per esempio, se un dollaro debole possa nuocere all’economia dei Paesi dell’euro. Perché dovrei affannarmi a sperare nella vittoria di un contendente piuttosto che dell’altro? Molti europei sembrano immedesimarsi nella competizione elettorale americana e scelgono il candidato che maggiormente ricorda la famiglia politica a cui appartengono. Nel caso di queste elezioni, quindi, i progressisti sarebbero con Obama e i conservatori con Romney. A me sembra, francamente, tempo sprecato e per di più indice di una certa sudditanza culturale di fronte agli Stati Uniti. Chi parteggia per uno dei due candidati senza che questo gli garantisca la benché minima influenza sulla sua futura politica alla Casa Bianca, riconosce implicitamente all’America il diritto di guidare il mondo. A me sembra che il mondo, soprattutto in questo momento, abbia bisogno anche dell’Europa e che gli interessi dell’Europa non coincidano sempre e necessariamente con quelli degli Stati Uniti”.
Romano, in conclusione, si dichiara ben distante dalle tifoserie italiote divise tra repubblicani e democratici, mentre riafferma la distinzione tra affari americani e interessi europei/italiani. In tempi di élite apolidi e di diritti dei popoli calpestati in nome della dittatura dei diritti umani, schierarsi in difesa della sovranità europea è un atto di coraggio che non può passare inosservato.