Era solo un giornalista che non avrebbe mai scritto un pezzo dal bordo di una piscina». Tra le definizioni cucite addosso ad Almerigo Grilz, quella di Fausto Biloslavo, suo amico fraterno e collega di mille avventure, lo rappresenta come meglio non si potrebbe. Le peggiori? Spia, per uno che non ha mai avuto il timore di metterci la faccia. Trafficante d’armi, a lui che odiava chi, pur dichiarandosi cattolico, si arricchiva con le guerre. Mercenario, come sentenziò l’ineffabile “Repubblica”, anch’essa in prima linea, sì, ma sul fronte della mistificazione. Per il quotidiano di Scalfari il giornalista trentaquattrenne colpito alla nuca il 19 maggio 1987 mentre filmava un assalto dei ribelli del Mozambico a Caya, città sullo Zambesi presidiata dai soldati del governo di Maputo, rimaneva un «attivista fascista morto in Angola». Particolare trascurabile, che i servizi di Grilz e dell’Albatros – l’agenzia giornalistica fondata con altri due ragazzi di destra, Biloslavo e Gian Micalessin – venissero passati dalle più importanti emittenti televisive e testate giornalistiche del mondo, tanto che persino l’americana Cbs aveva deciso di raccontare la lotta dei mujaheddin contro le truppe dell’Armata rossa utilizzando il lavoro sul campo dei tre giovani triestini.
La colpa imperdonabile di Grilz era l’essere stato tra i massimi dirigenti del Fronte della Gioventù, prima forza politica giovanile nella Trieste degli anni Settanta; l’aver rappresentato, da consigliere comunale del Msi, le sofferenze e le ragioni degli italiani orientali. Un leader per il quale il salto nella politica nazionale sembrava dietro l’angolo. Come altri, avrebbe potuto ingannare l’attesa di una candidatura ritagliando agenzie stampa nel caldo tepore di una redazione. Ma Grilz, già vice segretario nazionale del FdG, scelse di andare a cercare le guerre dimenticate, senza la copertura di una qualsiasi testata e “armato” solo di una cinepresa, la Super 8 con cui s’era impratichito filmando cortei. Poco più che ventenne – era nato l’11 aprile del 1953 – aveva seguito l’invasione israeliana in Libano e da allora non si era fermato più. Dieci mesi l’anno a inseguire conflitti: in Cambogia, sul confine thailandese-birmano, in Afghanistan, nelle Filippine, nel Medio Oriente infiammato dalla guerra tra Iran e Iraq. «Why not?» era il suo motto. Perché no? Di motivi per non andare, in realtà, ce ne sarebbero stati molti. Scalare montagne a dorso di mulo e rischiare di finire nelle mani dei sovietici non sono esattamente incentivi. Lo stesso Biloslavo nel 1988 sarà arrestato a Kabul da agenti governativi sovietici e incarcerato per sette mesi.
Paradossale che a scontare il pregiudizio di essere giornalista militante sia Grilz, il cui stile è asciutto e privo di retorica. Dà voce ai soldati e alla gente comune. Non infiocchetta verità precostituite. Non si fa portavoce di una parte. Non ci sono guerre giuste e guerre sbagliate, spiega. «All’inizio di una guerra c’è una parte che ha ragione e una che ha torto – scrive – ma poi arriva il vortice e non ci sono più buoni e cattivi». Quando, alle quattro del mattino di quel 19 maggio di venticinque anni fa, i guerriglieri anticomunisti del Renamo si mettono in marcia, sa che, comunque vada, va incontro all’ennesimo massacro. Ad aspettarli, qualche ora dopo, troveranno non soltanto i governativi ma anche tanti troppi baschi rossi e una pallottola vagante che Grilz, abituato a filmare in piedi, si prenderà in testa. Della sua morte ne parlarono diffusamente televisioni e giornali in ogni angolo del pianeta. Non altrettanto si fece in Italia, sia pure con rare e lodevoli eccezioni. Se il nome di Grilz è inciso sul monumento che “Reporters sans frontières” ha dedicato in Normandia a tutti i giornalisti caduti sul campo, da noi continua a creare imbarazzo e ostracismi. Per spezzare l’oblio, i suoi due antichi amici, nel 2007, hanno pubblicato “Gli occhi della guerra”, libro fotografico frutto di venticinque anni di reportage con diversi scatti di Almerigo. Pochi anni prima, nel 2002, un gruppo di amici e colleghi erano stati in Mozambico per scoprire dov’era stato sepolto, realizzando il commuovente documentario “L’albero di Almerigo”. Un viaggio, quello di Grilz, di sola andata. Non è un caso, del resto, che Micalessin, per raccontare le “Storie dei soldati italiani caduti nel paese degli aquiloni” abbia scelto come titolo del suo ultimo libro “Afghanistan solo andata” (Cairo Editore). Di quelle storie senza ritorno, come quella di Grilz, si sa ancora troppo poco.
*dal Secolo d’Italia del 7 ottobre 2012