Nel percorso quotidiano, scandito dai minuti, che tante vite odierne sono diventate, non c’è più molto spazio per sognare. Siamo in permanenza tenuti a fare tre cose insieme, col rischio di non essere efficaci come la società ci vorrebbe. Poiché l’attività viene associata al valore, i fuori di testa che ne arrestino il corso sono visti con sospetto. E se così noi rinunciassimo a una delle nostre più preziose facoltà?
Lo dimostra Marina van Zuylen nell’appassionante saggio L’Artd’être distrait – Se perdre pour se trouver (Flammarion). “Come molti pensatori hanno capito, essere distratti è entrare in un altro rapporto col mondo, meno serio, più creativo, vivere in una forma di poesia interiore propizia al cammino filosofico”.
Montaigne non diceva una cosa diversa quando lodava “una meravigliosa grazia di lasciarsi cullare dal vento”, mentre Nietzsche confessava che le idee più feconde le aveva trovate passeggiando senza meta.
Le neuroscienze confermano quest’intuizione di pensatori e poeti. Il nostro cervello tratta 400 miliardi d’informazioni al secondo e non si ferma mai, nemmeno la notte. Paradossalmente, quando non facciamo niente, il cervello non si riposa, ma si lancia in un’intensa attività, che lo nutre. Infatti scatena un circuito neuronale, scoperto nel novembre 1992 da Barhat Biswal, studente di 25 anni, e battezzato dai ricercatori “rete del modo per difetto”, che ci permette proprio di riconnetterci a noi stessi, alle nostre emozioni, di proiettarci nel futuro e di essere nettamente più creativi.
E se smettessimo di temere noia e lentezza, per concederci ozio, dispersività, sconsideratezza, perdita di tempo e vagabondaggio?
La gioiosa e piacevole confusione nascente da questa libertà è anche il migliore modo per ampliare pensieri e orizzonti.
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