“La Confederazione ha […] esaminato, in dialogo diretto con numerosi Stati, le possibilità e le vie di un processo di pace. Durante la prima fase esplorativa, la Svizzera ha condotto colloqui con Paesi del G7, l’UE e con rappresentanti del Sud del mondo tra cui Cina, India, Sudafrica, Brasile, Etiopia e Arabia Saudita. Nella riunione odierna il Consiglio federale ha preso atto dei risultati raggiunti finora e ha discusso delle prossime tappe. Una conferenza di alto livello per avviare un processo di pace […] è dunque programmata per il mese di giugno 2024”.
Così recita il comunicato stampa emesso il 10 aprile u.s. dal Dipartimento Federale svizzero degli Affari Esteri per annunciare la prossima tenuta, in un noto resort nei pressi di Lucerna, di una “conferenza di pace” per la guerra russo-ucraina, cui dovrebbero partecipare rappresentanti di un’ottantina di Paesi. “La conferenza – prosegue il comunicato – offrirà una piattaforma per un dialogo ad alto livello sulle possibili vie per giungere a una pace globale, giusta e duratura per l’Ucraina, basata sul diritto internazionale e sullo Statuto delle Nazioni Unite”.
La Federazione Russa, non invitata all’appuntamento, ha immediatamente – e ovviamente – commentato l’iniziativa elvetica in maniera molto critica; Vladimir Putin l’ha addirittura definita “un fenomeno da baraccone”.
Se non proprio tale, la conferenza resta comunque, almeno al momento, un oggetto misterioso, da cui non si vede come possano scaturire proposte utili al raggiungimento di quella “pace giusta” di cui si riempiono la bocca tanti politici e commentatori occidentali: se non altro perché ben difficilmente Mosca ne asseconderà gli eventuali risultati, oltretutto in un momento che, sul campo, appare favorevole alle proprie forze armate.
In effetti, più che una conferenza di pace, l’iniziativa elvetica riporta alla memoria la conferenza di Yalta del 1945 e, ancora di più, quella di Teheran di fine 1943, quando i tre vincitori della Seconda Guerra Mondiale – in Crimea ormai sicuri di esserlo; non ancora del tutto nella capitale iraniana – si accordarono sulla sistemazione del mondo nel dopoguerra. Con una fondamentale differenza: allora nessuno poteva mettere in discussione la volontà di Roosevelt, Churchill e Stalin, mentre oggi la pluralità degli attori – soprattutto con la prevista presenza del “Sud del mondo”, come lo definisce in maniera un po’ informale il comunicato stampa elvetico – difficilmente favorirà il raggiungimento di risultati concreti.
E in effetti sembra fuor di dubbio che, alla base della conferenza del prossimo giugno, ci sia un (voluto) equivoco: non solo da parte degli Stati Uniti e dei loro partner, ma anche e forse soprattutto delle capitali extraeuropee, che non parteciperebbero alla redazione di documenti favorevoli agli auspici di “vittoria totale” espressi da Volodymyr Zelensky e dai suoi più accesi sostenitori occidentali.
Sembra invece più interessante, per chi scrive, leggere l’annuncio della conferenza di giugno utilizzando lenti svizzere. Si ricorderà come Berna, dopo l’invasione dell’Ucraina, avesse annunciato – in dichiarato ossequio alla propria storica neutralità – sanzioni antirusse piuttosto timide; e come solo dopo aver ricevuto aspre critiche interne ed esterne il Consiglio Federale avesse deciso di “riprendere” le sanzioni finanziarie e commerciali dell’UE. Ma, in seguito, la stessa attuazione pratica delle misure sanzionatorie era stata considerata troppo limitata dai partner occidentali: a partire dagli Stati Uniti il cui Ambasciatore a Berna, Scott Miller, aveva dichiarato il 16 marzo 2023 al quotidiano “Neue Zürcher Zeitung” che “la Svizzera non può dichiararsi neutrale e consentire a una o a entrambe le parti di sfruttare la legislazione svizzera a proprio vantaggio”.
Il grande scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt, nel racconto “FC Helvetia 1291”, paragona la Confederazione Elvetica a una squadra di calcio che ha smesso di giocare partite internazionali dopo la battaglia di Marignano del 1515 in cui, sconfitta da francesi e veneziani, aveva perduto il controllo del Ducato di Milano. In effetti, la Confederazione ha da allora sempre evitato di impegnarsi in campagne militari, fino a elaborare il “dogma” della sua neutralità. Ma non per questo ha rinunciato alle proprie ambizioni, trasferendole dall’ambito geopolitico a quello strettamente economico e utilizzando a tal fine mezzi spesso poco ortodossi, come l’impiego su larga scala del segreto bancario.
In questo contesto, la persistente refrattarietà elvetica agli impegni internazionali può anche assumere forme trasformisticamente opposte: essendo per antonomasia “neutrale” – fino al punto di entrare a far parte dell’ONU soltanto nel 2002 – la Svizzera ritiene di potersi muovere senza alcun condizionamento, assumendo così quell’aura di “grande mediatrice” che, a torto o a ragione, la avvolge ormai da decenni.
La realtà è diversa: la Confederazione è stata da sempre tentata di “bypassare” le difficoltà e le responsabilità internazionali, limitandosi a cercare di preservare il proprio modo di vivere. Prova ne sia la vicenda del cosiddetto “accordo quadro” con l’Unione Europea, i cui lunghissimi negoziati vennero abbandonati tre anni fa da Berna, che non aveva intenzione di pervenire all’istituzione di un vero mercato unico con effettiva parità di condizioni fra tutti i partecipanti, ma preferiva la conservazione della pletora di accordi bilaterali che disciplinano attualmente le relazioni fra le due entità e permettono alla Svizzera un larghissimo accesso al mercato comunitario, le cui norme peraltro essa applica in maniera ampiamente selettiva. “Avoir le beurre et l’argent du beurre”, si dice spesso a Bruxelles parlando dell’atteggiamento svizzero: un’espressione che ben sintetizza il modo di muoversi elvetico, non solo nei riguardi degli interlocutori europei.
Ebbene, l’annuncio della cosiddetta “conferenza di pace” per l’Ucraina sembra muoversi nella stessa direzione: farsi perdonare la traballante applicazione delle sanzioni e mostrare coinvolgimento nelle grandi questioni internazionali, con il principale/unico scopo di continuare a fare i propri interessi. E forse non è un caso che tale annuncio sia stato preceduto solo di qualche settimana da quello dell’approvazione da parte del Consiglio Federale di un nuovo mandato negoziale per il citato accordo quadro europeo. Il futuro di quest’ultimo esercizio appare alquanto nebuloso, se la tradizionale postura elvetica non cambierà; ma è soprattutto l’altro che rischia di rivelarsi assolutamente inutile, se non saranno gli Stati Uniti, approfittando magari di qualche vago appiglio emerso in conferenza, a trovare il bandolo della matassa, avanzando a Kiev e soprattutto a Mosca proposte mutuamente accettabili.
In tal caso, la sempre fortunata Svizzera potrebbe gloriarsi a posteriori dell’eventuale successo, confermando agli occhi del mondo quella sua bucolica “bontà” che già due secoli addietro Vincenzo Bellini e il suo librettista Felice Romani avevano attribuito nella “Sonnambula”, opera ambientata proprio nella Confederazione, alla rossocrociata protagonista, Amina: “In Elvezia non v’ha rosa fresca e cara al par d’Amina:/è una stella mattutina, tutta luce, tutta amor./Ma pudica, ma ritrosa, quanto è vaga, quanto è bella:/è innocente tortorella, è l’emblema del candor.”