“La Cina antica bruciava i libri, la Grecia metteva sotto processo i filosofi. Anche oggi i media dividono il mondo tra buoni e cattivi e noi siamo i buoni”: introducendo il festival “Storia in Piazza”, quest’anno dedicato al tema “Libri e Libertà”, Luciano Canfora, uno dei curatori della manifestazione genovese, ha così sintetizzato l’annosa ed attualissima questione della censura nelle sue diverse declinazioni. Censura diretta, censura preventiva, censura simbolica, autocensura: sono tanti i modi per declinare il controllo della comunicazione. Un tempo era il potere in senso stretto. Nella Cina antica – nota Canfora – l’imperatore che cominciò a costruire la Grande Muraglia arrivò ad ordinare di bruciare tutti i libri che non lo magnificavano, mentre “ad Atene c’era una pressione politica che insisteva sul fatto che la filosofia facesse male, inducendo il popolo a starne alla larga”.
Ed oggi ? Mutano i contesti, ma la censura continua ad essere viva.
Anche là dove, come nel nostro occidente – aggiungiamo noi – vengono sbandierate (e costituzionalmente fissate) inalienabili garanzie di libertà, c’è chi alimenta i roghi dell’intolleranza, nascondendosi abilmente dietro il paravento dei “nuovi diritti” ovvero dei “diritti legittimi”.
Il paradosso è che ad evocare la necessità della censura siano forze e forme politico-ideologiche minoritarie, auto proclamatesi “progressiste” e paladine di nuove verità assolute. Anassagora – come ricorda Canfora – dovette scappare da Atene per evitare un processo che lo avrebbe potuto condannare a morte solo perché era ateo. Oggi sono costretti a “scappare” coloro che non rispondono alle aspettative dei nuovi censori.
Nel recente passato ne fu vittima perfino un Papa, Benedetto XVI, costretto a non partecipare, nel 2008, all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università la Sapienza di Roma, a seguito delle proteste espresse da alcuni docenti e dai collettivi studenteschi. Alla base una lettera, del prof. Marcello Cini, pubblicata su “il Manifesto”, nella quale, con toni aspri, si faceva riferimento alla lectio magistralis “Fede, ragione e università” , tenuta dal Pontefice, il 12 settembre 2006, presso l’Università di Ratisbona, accusandolo di appoggiare la teoria del “disegno intelligente” (secondo cui “alcune caratteristiche dell’universo e delle cose viventi sono spiegabili meglio attraverso una causa intelligente (che) non attraverso un processo non pilotato come la selezione naturale”).
Qualche giorno fa è toccato al direttore de “la Repubblica“, Maurizio Molinari, per il quale era stato programmato, presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università Federico II di Napoli, un incontro-dibattito sul “Ruolo della cultura nel contesto di un Mediterraneo conteso”, a cui avrebbero dovuto intervenire Molinari e il rettore dell’Ateneo, Matteo Lorito. L’appuntamento è stato annullato vista la tensione crescente provocata da un gruppo di studenti di sinistra, filo-palestinesi e anti-sionisti, in protesta contro i rapporti (presunti) con Israele degli atenei italiani.
La settimana scorsa sul “rogo” (insieme al docente chiamato in causa) è finito addirittura il filosofo scozzese David Hume (1711-1776), citato dal prof. Spartaco Pupo, ordinario all’Università della Calabria, che aveva inserito una sua frase (il docente è uno studioso di Hume, autore di sette libri tra traduzioni di saggi e monografie, di cui due in inglese, oltre una decina di articoli su riviste scientifiche) in un post diffuso per la festa della Donna.
“Mi sono permesso di fare quello che milioni di utenti social hanno fatto l’8 marzo – ha dichiarato il prof. Pupo – formulare gli auguri alle donne. Alla classica icona della mimosa, ho preferito un pensiero tratto dai saggi di Hume sulla cavalleria e la galanteria, da me tradotti e raccolti in un volumetto del 2018, in cui lo scozzese raccomandava ai suoi contemporanei settecenteschi di usare con le donne tutta la riverenza e la comprensione possibile per non comportarsi come i popoli barbari, che in quel tempo ostentavano la superiorità fisica maschile per segregare, picchiare e uccidere le donne”.
Apriti cielo: immediate le proteste del collettivo femminista, seguite da una mail dell’Ufficio della Consigliera di Fiducia dell’Università, con cui veniva ingiunto al docente di “rimuovere l’intero post”, giudicato in contrasto con il “Codice di Condotta di Ateneo”. Con un semplice clic si fa cartastraccia della libertà di opinione e del diritto di un professore a pensare e ad esprimersi, peraltro sanciti dallo stesso Codice di Condotta dell’Università, richiamato nell’intimazione formale. “Quello che mi si contesta in quella mail – ha sottolineato il prof. Pupo – ha dell’incredibile: la mia mancata presa di distanza da una frase tratta da un libro da me tradotto e curato. In pratica dovrei censurare me stesso!”
E’ il cortocircuito culturale, il ribaltamento di qualsiasi diritto di espressione, il rogo mass mediatico camuffato da lotta al sessismo e da volontà di inclusione. E – nello specifico – la limitazione della libertà accademica, uno dei capisaldi della nostra Costituzione, che (art. 33) sancisce: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Il risultato ? Trasformare l’Università da luogo del confronto delle idee a tempio dell’intolleranza.
Siamo già oltre la cancel culture, finalizzata a punire o interrompere i rapporti con qualcuno per via di certe cose che ha fatto, detto o scritto. Arriva la deplatforming con ciò intendendo il tentativo di boicottare qualcuno o qualcosa (una serie di idee, posizioni o temi controversi per esempio), generalmente rendendogli difficoltoso l’accesso a canali pubblici attraverso cui veicolare i propri messaggi o interrompendone servizi e cancellandone contenuti preesistenti.
La censura è sempre viva. Il tempo sembra passato invano. Cambiano i soggetti in campo e gli strumenti dati , ma come nell’antica Cina imperiale i “roghi” continuano a bruciare, naturalmente nel nome della cultura “progressista”.