Bab el-Mandeb, la porta delle lacrime. Questo significa il nome arabo dello stretto che domina l’ingresso meridionale del Mar Rosso, bersagliato ormai da settimane dai missili del movimento yemenita Houthi.
Nomen omen: l’azione degli Houthi, certamente benedetta da Teheran, sta causando gravissimi danni al commercio internazionale e, in particolare, a quello che ha origine o termine nel Mediterraneo. Infatti, molte navi mercantili che avevano programmato il transito attraverso lo stretto sono state costrette a invertire la rotta per evitare l’insidia proveniente dallo Yemen: così il Mar Rosso si è andato progressivamente svuotando di imbarcazioni, mentre molte compagnie internazionali di shipping stanno decidendo di tornare all’antico periplo dell’Africa.
E’ appena il caso di aggiungere che tale situazione rischia di causare un nuovo, forte incremento dei prezzi dei beni energetici, dopo quello sofferto da molti Paesi occidentali a causa dell’obbligata fine delle forniture russe. In questo quadro, l’Italia si trova davvero al centro della tempesta anche dal punto di vista della sicurezza generale dei rifornimenti: prima della crisi, infatti, circa il 40% del nostro import-export passava per il Canale di Suez.
Vogliamo però qui occuparci di un più generale aspetto del problema: la tenuta degli Stati Uniti d’America come garante dell’ordine internazionale.
Gli USA hanno da sempre fondato le proprie ambizioni geopolitiche su quello che viene a buona ragione definito “eccezionalismo americano”. Le radici di tale concetto risalgono al tempo dei Padri Pellegrini, quando venne fondato il mito della “città sulla collina”: una comunità di uomini nuovi, che sarebbe stata un perfetto esempio per il mondo intero. Tale mito venne poi perfezionato a metà Ottocento con l’elaborazione dell’ideale del “destino manifesto” dell’America: diffondere in tutto il mondo il proprio grande esperimento di libertà.
Ma fu negli ultimi anni del XIX secolo che l’Ammiraglio Alfred J. Mahan enunciò quello che sarebbe stato il principale strumento geopolitico a stelle e strisce: la talassocrazia. Basata sul libero accesso agli oceani per le navi commerciali e sul controllo dei choke points (stretti, canali e quant’altro), assicurati dalla superiorità della flotta militare statunitense, la dottrina talassocratica ha da allora consentito agli Stati Uniti di esercitare un’influenza globale senza precedenti, definendo in maniera decisiva il modo in cui Washington si pone a livello internazionale. I suoi presupposti, essenzialmente economici e militari, non sono basati sui valori morali predicati dai padri dell’eccezionalismo, ma di quest’ultimo costituiscono un evidente corollario.
Sulla difesa della libertà di navigazione per sé stessi e per gli alleati/clientes, cui vengono inoltre concesse protezione militare e vaste facilitazioni commerciali, gli Stati Uniti hanno basato la propria egemonia a livello globale a partire dal primo dopoguerra, con il peraltro sterile idealismo democratico di Woodrow Wilson; poi in maniera ben più incisiva nell’ambito del duro scontro ideologico con l’Unione Sovietica; e infine, dopo il crollo dell’avversario, nell’ambito di un nuovo sistema virtualmente unipolare.
La crisi dell’unipolarismo
La crisi dell’unipolarismo, innescata non soltanto dai sempre più frequenti focolai di instabilità nello scenario geopolitico internazionale ma anche e soprattutto dalla conclamata crisi interna degli stessi Stati Uniti, è oggi sotto gli occhi di tutti. Ma Washington, se intende conservare almeno in parte la sua egemonia, deve continuare a tener fede agli impegni assunti: e qui torniamo alla situazione nel Mar Rosso.
E infatti – dopo vari contorcimenti che hanno visto come sempre distinguersi l’Unione Europea in modalità “difesa comune” – gli Stati Uniti, assieme all’abituale socio britannico, hanno deciso di muovere contro gli Houthi, lanciando una missione navale dal nome “Prosperity Guardian”: appellativo, occorre riconoscere, geopoliticamente piuttosto calzante, alla luce di quanto fin qui detto. La missione ha provveduto, nelle ultime settimane, a rispondere agli attacchi e anche a bombardare alcune basi degli Houthi: ma senza riuscire a impedire che questi continuassero a terrorizzare le acque prospicienti l’ingresso del Mar Rosso, tanto è vero che le navi commerciali continuano ad allontanarsene, con le gravi conseguenze economiche che abbiamo visto.
Ci si può quindi legittimamente domandare: come faranno gli Stati Uniti, data la manifesta debolezza dell’Amministrazione Biden (dimostrata anche dalla quasi assoluta impotenza nella collegata crisi di Gaza e in, precedenza, dall’inglorioso ritiro afghano e dall’altalenante conduzione della “guerra per procura” in Ucraina), a tener fede a quelli che, da Mahan in poi, sono stati i cardini della sua autorità e della sua stessa posizione nel mondo? Non riuscire a piegare i pur ben armati e foraggiati Houthi non è esattamente il miglior viatico per la più grande potenza talassocratica di tutti i tempi e per la conservazione della sua egemonia planetaria.
Missione difensiva (ma armata)
Insomma, la “porta delle lacrime” sembra al momento veramente tale per il nuovo-antico “guardiano della prosperità”. In suo soccorso sembra stia arrivando, è vero, l’Unione Europea con la missione militare “Aspides”, che dovrebbe affiancare nelle prossime settimane quella anglo-americana: una missione “difensiva ma armata”, nelle parole a dir poco sibilline del nostro Ministro degli Esteri Tajani. Peccato che, in questo caso, la scelta del nome non sembri azzeccatissima, considerando quello che un piccolo aspide fece un tempo alla regina dell’Egitto: il Paese che soffre in assoluto di più le conseguenze della crisi in corso, a causa del virtuale azzeramento delle royalties che riceveva per il passaggio nel Canale di Suez e che costituivano gran parte delle poste attive del suo traballante bilancio.