A cinquant’anni dalla sua scomparsa e dalla prima edizione italiana de Lo Hobbit (“The Hobbit”, 1937), presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea (GNAM), uno dei massimi musei del genere a livello globale, è allestita sino all’11 febbraio 2024 la ricca mostra Tolkien. Uomo, Professore, Autore, dedicata a John Ronald Reuel Tolkien (1892 – 1973), creatore della celebre epica della Terra di Mezzo con cui ha plasmato una nuova mitologia per la contemporaneità, divenendo così uno degli autori più apprezzati dal pubblico internazionale.
La esposizione ci racconta il percorso umano, il lavoro accademico, la potenza narrativa, la forza poetica di questo scrittore e intellettuale, attraverso un viaggio nella sua grandezza, offrendo al visitatore una occasione assai preziosa per comprendere quanto la straordinaria conoscenza della Mitologia Norrena non fosse la sola base del suo processo creativo. Già, poiché è utile subito chiarire che Tolkien era primariamente un linguista, professione che lo spinse a diventare un glottoteta (un inventore di lingue artificiali). Ragion per cui, la sua narrativa e ricerca scientifica andavano sovente di pari passo, l’una alimentando l’altra e viceversa. Sta proprio qui il motivo del suo successo, e ciò che lo differenzia nettamente da ogni altro scrittore Fantasy: l’enorme portato culturale e concettuale caratterizzanti i suoi romanzi.
Non stupisce, quindi, che con più di duecentocinquanta milioni di copie vendute, la trilogia de Il Signore degli Anelli (“The Lord of the Rings” [conosciuta anche come LoR], scritta a più riprese tra il 1937 e il 1949, poi pubblicata tra il 1954 e il 1955) sia il terzo libro più letto di sempre dopo la Bibbia e il Corano, attestandosi come una saga amata da una immensa varietà di lettori in ogni angolo del pianeta, di ogni nazionalità, al di là di credo, cultura, ed età, perché, diversamente da praticamente tutti gli autori “non mimetici”, mutuando le categorie aristoteliche, l’opus tolkieniano ha in sé una vocazione universale. In questo, si trova il convinto Cattolicesimo dello scrittore di Birmingham; ricordiamo, infatti, che cattolico vuol dire per l’appunto “universale”.
Quella romana è da considerarsi la prima esposizione di tali dimensioni mai rivolta in Italia a questo autore. Rispetto alle mostre allestite in passato: Tolkien: Maker of Middle-Earth, alla Bodleian Library di Oxford (2018), Tolkien, Voyage en Terre de Milieu, promossa dalla Bibliothèque Nationale de France a Parigi (2019) e J.R.R. Tolkien: The Art of the Manuscript, alla Marquette University’s Raynor Memorial Libraries e The Haggerty Museum of Art a Milwaukee (WI) (2022), che hanno esaltato particolari aspetti delle sue opere letterarie, quella alla GNAM ha come obiettivo la analisi di Tolkien a 360°, come si evince del resto dal titolo stesso della mostra.
Tutte queste iniziative a livello internazionale sono state guidate da un filo comune, col principale intento di evidenziare il Tolkien scrittore sub-creatore, mettendo in luce la sua vasta produzione fatta di appunti, manoscritti, scritture e riscritture dei suoi lavori e affiancando a essa le illustrazioni – perlopiù mappe e simboli runici – che egli creò per dare immagine alla parola. Lo specifico della rassegna di Roma è che qui viene raccontato l’uomo, il padre e l’amico, oltre ovviamente al professore universitario a Oxford (Merton Professor of English) e l’autore. Proprio sul versante accademico, diverse sue ricerche e pubblicazioni risultano ancora oggi fondamentali per lo studio della lingua e letteratura in medio inglese (Middle English), benché il suo capolavoro scientifico sia da ascriversi all’inglese antico (Old English): Beowulf. A Translation and Commentary, su cui lavorò dal 1920 al 1926, e fatto uscire postumo dal figlio Christopher (1924 – 2020), anche lui insegnante oxoniense. Ecco, qui sta forse l’unica annosa questione che riguarda Tolkien: visto che una mole notevole del suo lavoro è stata “rivista” dal terzogenito, in primis Il Silmarillion (The “Silmarillion”, una sorta di testo sacro dell’universo tolkieniano), quanto è veramente attribuibile al padre? Non è questa la sede per approfondire l’argomento. Nondimeno, il dibattito è tuttora in corso e si è pensato opportuno farne menzione, perché non riteniamo la cosa facilmente liquidabile solo per difendere il genio del Professore.
Sia come sia, parliamo di un intellettuale che, per mezzo della sua incredibile fantasia, ha saputo toccare il cuore di milioni di lettori, raggiungendo una fama planetaria, un successo incondizionato e la residenza permanente nell’immaginario collettivo con i succitati Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, ma meno con Il Silmarillion, considerata la complessità di tale volume, ove si palesa tuttavia che Tolkien non ha attinto solo al suo fervido intelletto per creare Arda (il mondo immaginario in cui ha ambientato le sue storie), ma anche a tutto quel corpus mitologico-linguistico presente nel Ciclo Norreno, precipuamente nell’Edda in Prosa (1220 ca.) dell’islandese Snorri Sturluson, come pure dal poema finlandese Kalevala (metà XIX secolo) di Elias Lönnrot e, in parte minore, dall’epica classica greca. Lo scrittore inglese ha dunque il merito di aver ripreso tutto questo enorme bagaglio sapienziale, facendo vivere al Novecento una dirompente fiammata di cultura.
Per dare un’identità all’esposizione di Roma si è partiti da due importanti cinquantenari che ricadono nel 2023. Il primo è la ricorrenza della scomparsa di Tolkien, avvenuta il 2 settembre 1973; il secondo ha invece una valenza prettamente nazionale ed è la pubblicazione della prima edizione italiana de Lo Hobbit da Adelphi. Sala dopo sala, ci si accorge che il percorso di formazione dell’erudito inglese è stato lungo e tortuoso. Si inizia con la vita privata e familiare, gli anni dell’infanzia, la perdita già da ragazzino di entrambi i genitori, l’amore travagliato con Edith Bratt, conosciuta da giovane a Birmingham e che riuscirà a sposare nel marzo del 1916. Spazio è dato anche alla sua esperienza tragica della Grande Guerra, nelle fangose trincee della Somme, che tanto lo segnerà. Si prosegue con la descrizione del mondo oxoniense, con i “riti” dei College e le sue menti più brillanti, di cui Tolkien fu tra i massimi rappresentanti; poi la sua produzione accademica, la passione per la letteratura medievale nordica e i suoi amici, colleghi e studenti, con i quali condivise lo studio e momenti di pura convivialità, con la creazione degli Inklings, un club di intellettuali, con l’immancabile appuntamento il martedì sera presso il pub Eagle and Child di Oxford. La sezione terminale del percorso espositivo arriva alla sua produzione narrativa, di cui si è parlato in precedenza, la quale viene esplorata attraverso le edizioni dei suoi libri pubblicati dall’Armenia al Giappone; da Cuba al Sudafrica, e tradotti in tutte le lingue parlate e anche in quelle meno conosciute, come il cornico (in inglese Cornish), l’hawaiano, il latino o il gaelico, per citarne solo alcune. A testimoniare la enorme influenza di Tolkien sulla cultura popolare abbiamo esemplari afferenti all’arte, al cinema, ai fumetti, ai giochi da tavolo e di ruolo, e alla musica. A tal proposito, è nostra convinzione che Peter Jackson abbia preso non pochi spunti per girare la sua fortunata Trilogia Filmica (ben 17 Premi Oscar) da quella perla della animazione che è: Il Signore degli Anelli (“J. R. R. Tolkien’s The Lord of the Rings”, 1978) dell’americano Ralph Bakshi.
Un plauso va alla curatela di Oronzo Cilli (sua è la monografia, Tolkien e l’Italia, Rimini, Il Cerchio, 2016), per aver dato rilevanza al rapporto di Tolkien con l’Italia: “Sono innamorato dell’italiano, e mi sento abbandonato senza la possibilità di cercare di parlarlo! Dobbiamo continuare a studiarlo”, si legge in una sua lettera a Christopher vergata durante un viaggio a Venezia e ad Assisi nell’agosto del 1955, in compagnia della figlia Priscilla. Molti non colgono qui un messaggio che noi riteniamo invece di notevole importanza; ovvero, che con quel “dobbiamo”, è facile comprendere come egli fosse conscio che la Lingua di Dante, e di conseguenza l’Italia, culla di quella Civiltà Occidentale a lui così cara, fosse da tempo ignorata e, diciamocelo, svalutata da tutti quei Popoli assolutamente debitori nei suoi confronti. La esortazione di Tolkien cadde purtroppo nel vuoto e adesso abbiamo davanti agli occhi cosa sia diventato il fu Belpaese e l’Occidente in generale. Il Professore sapeva che tale noncuranza, a partire proprio dai suoi sodali accademici, avrebbe avuto col tempo esiti esiziali, e così è stato. Nondimeno, solamente una persona del suo acume e sensibilità verso la Tradizione poté cogliere il dato: senza una preminenza italiana almeno dal punto di vista culturale, le Orde di Mordor non sarebbero più state un mero prodotto della fantasia, ma qualcosa di sciaguratamente reale.
“In un buco nel terreno viveva uno Hobbit”. Con queste parole l’autore ha dato inizio alla bellissima avventura di Bilbo Baggins e acceso una fervida scintilla in generazioni di lettori, svelando la Terra di Mezzo e i suoi abitanti: Hobbit (una allegoria degli stessi inglesi), Elfi (l’antica sapienza, incarnata dalla parola inglese lore, Nani (molto probabilmente ispirati agli ebrei) e Uomini, creando romanzi che sono divenuti leggenda nella cultura di massa. Sebbene siamo d’accordo con la opinione di Quirino Principe – musicologo e curatore della prima edizione italiana del LoR – secondo cui Il Silmarillion può forse considerarsi un di più nell’opus tolkieniano, col desiderio da parte dell’autore di fornire coerenza alla mitologia di storie fantastiche che alla fine non ne hanno affatto bisogno, è altrettanto vero che quel “mito” Tolkien lo rese comunque concreto quando esso si radicò nella immaginazione di milioni e milioni di lettori.
Tra i punti di forza della sua opera vi è la intrinseca vitalità dell’intero “Mondo Secondario” partorito dalla fantasia di Tolkien, conferendo dignità e complessità al genere fiabesco. La sua “sub-creazione” – termine coniato da lui – è imperniata sul concetto fondativo di voler proporre una nuova mitologia, anche se abbiamo poc’anzi chiarito come la originalità dei suoi miti sia, specialmente dagli appassionati, sovrastimata. Egli volle donare alla sua amata Inghilterra, visto che ne era priva, una mitologia, e per fare questo, attinse a numerosi fonti già esistenti. Osando un parallelismo che non riteniamo però così peregrino, lo stesso procedimento culturale venne portato avanti Oltreoceano con i comics americani. Benché non sia intenzione nostra alcuna scendere nelle polemiche politiche che da sin troppo attanagliano la ricezione di questo scrittore, è utile rammentare al lettore quella che è la esegesi di base di Tolkien: egli non volle proporre una “fuga del disertore”, una sollecitazione “escapista”, come certi critici lo hanno sistematicamente accusato di fare, bensì la legittima e onorevole “evasione del prigioniero” dal carcere di una realtà che lo segregava e opprimeva spiritualmente.
Un aspetto che abbiamo molto apprezzato di questa esposizione è il voler raccontare e valorizzare l’uomo Tolkien; il mite accademico di Oxford che condusse una vita savia, senza eccessi, ancorata a pochi e saldi riferimenti: gli affetti familiari e le amicizie, la Fede, la ricerca e, naturalmente, la costante elaborazione del suo universo, da lui chiamato Eä. Nulla di sorprendente né scioccante. Lui non nutriva l’ambizione di diventare famoso e si definiva pigro, non amante dei viaggi e oppositore della artefatta cucina francese. Tolkien coltivò un solo “vizio segreto”, l’inventare dapprima delle lingue e successivamente i contesti ove collocarle. È probabile che solo un linguista possa capire una dichiarazione di questo tipo: “Le lingue hanno un sapore per me. […] Una nuova lingua per me è proprio come assaporare un nuovo vino”. Invero, è per l’appunto il linguaggio il grande protagonista della Epopea Tolkieniana, la quale trasse la propria forza dalla costruzione di quello che da tempo gli studiosi di settore indicano col termine Legendarium; in buona sostanza una epica, la quale necessita per l’appunto di un linguaggio apposito.
Un ulteriore aspetto, magari meno complicato, che è parimenti giusto evidenziare, risiede nel sistema valoriale delle sue storie. Tolkien, va ricordato, si sentiva profondamente occidentale: era convinto che le istanze collettive dovessero combaciare con quelle personali. L’impresa aveva la medesima importanza sia se compiuta da un gruppo che da un singolo, Frodo affronta con le proprie forze un compito che va ben oltre le sue possibilità. Sam lo aiuta e consola, ma nulla di più. In tale prospettiva, lo scrittore declina il senso della comunità, il rispetto per la Natura e la Tradizione, in opposizione agli influssi perniciosi e disumanizzanti della modernità che indeboliscono il vincolo dell’amicizia, il coraggio e la dedizione. Anche in questo è doveroso marcare una distanza fra Tolkien e i suoi spesso inadeguati epigoni nel Fantasy, i quali sovente propongono estrose e poco coerenti ambientazioni storico-fantastiche, esclusivamente come supporto atto a puntellare esili intrecci in cui sesso, avventura e intrighi politici vengono mescolati con modalità disarmoniche. Il sostenere che in questo genere di narrativa nessuno scrittore sia mai nemmeno lontanamente arrivato ai livelli di Tolkien può sembrare comprensibilmente eccessivo; eppure, siamo convinti che si tratti di una verità pressoché inoppugnabile.
Come ogni autore di spessore, i suoi romanzi sono fedeli a un preciso ideale estetico, anche se inteso in senso lato. Sarebbe a dire, che il Mito è giudicato una entità ordinata, equilibrata, in possesso di una distintiva e manifesta euritmia; una via poetica privilegiata per osservare la realtà in maniera più autentica e consapevole. “Ho inventato i miei mondi per dare uno spazio alle mie lingue inventate. Il mito, un’invenzione umana intorno alla verità”, così lo scrittore rivela cosa si celasse dietro il suo worlding o world building: le geografie, le razze con i loro usi e costumi, accadimenti susseguitesi attraverso ere luminose o oscure; tutto questo solamente per attualizzare una mitopoiesi ancorata a dei Pantheon ancestrali che, nella mente di Tolkien, dall’Islanda arrivavano sino alla Grecia antica. Per far questo, era indispensabile plasmare non solo una lingua, ma un intero sistema comunicativo. Pertanto, dietro il lavoro del Professore vi era innanzitutto una singola e impellente motivazione, dare sfogo alla sua voglia di generare fonemi ed etimi, giacché, e intendiamo reiterarlo con vigore, stiamo parlando di una persona che era, come si riteneva egli stesso, sopra ogni altra cosa un linguista.
Il merito di questa mostra, il portato culturale in essa offerto sta nel ribadire la utilità spirituale e salvifica della fantasia, della creatività, assieme alla bontà delle migliori qualità individuali, in un’epoca la cui concezione dell’essere umano è ridotta ai minimi termini intellettuali e morali; ogni afflato trascendente viene declassato al rango di orpello desueto, addirittura da obliare. L’Epos delle saghe tolkieniane, parallelamente al loro ineludibile aspetto linguistico e mitologico, ha dato linfa vitale all’“arte di sognare”, proponendo un orizzonte di suggestioni fantasiose, ma solidamente uniforme. Ciononostante, troppi leggono ancora Tolkien in modo, loro sì, escapista e immaturo, perdendosi dietro a nomi dai suoni bizzarri e imprese eroiche. Stimiamo che il Professore non volesse questo per i propri romanzi: lui intendeva essenzialmente spiegare il legame tra mito e parola. Spesso viene affermato che i suoi scritti possono avanzare soluzioni alla crisi della modernità, per dirla col filosofo ed esoterista francese René Guénon (1886 – 1951). Allora si spulcia tra le righe de Il Silmarillion o si tenta di carpire il senso delle frasi di Tom Bombadil, fanciullescamente non avvedendosi che la risposta era stata suggerita a lettere cubitali nell’ultimo libro del LoR, e non in qualche criptico paragrafo, ma nel titolo del romanzo, “Il ritorno del Re”!