«Anche l’Europa può mancare la sua ora. Ciò significherebbe che un’unità sarebbe realizzata non come passo verso il vivere libero, ma come un cadere nella comune servitù». Questa frase dal chiaro sapore “profetico” fu pronunciata da Romano Guardini durante il suo discorso di ringraziamento per aver ottenuto a Bruxelles il 28 aprile del 1962 il Praemium Erasmianum.
Chi fu Romano Guardini? Egli nacque a Verona nel 1885 da un facoltoso commerciante della città scaligera che già nel 1886 si trasferì stabilmente a Magonza, in Germania, con la famiglia. I Guardini acquisirono per le vacanze estive e per i loro periodici e saltuari rientri in Italia una villa ad Isola Vicentina. La sua formazione però avvenne tutta in Germania tra Magonza, Tubingen e Friburgo. Egli portò sempre impresso come un marchio nel suo carattere e nella sua personalità le tracce di questa doppia patria e del dualismo di fondo delle sue radici. Fu sacerdote, docente universitario e teologo di grande carisma tra i giovani. Le sue lezioni infatti erano sempre affollatissime. Ebbe un’influenza decisiva nella formazione di Benedetto XVI e persino della scrittrice cattolico-americana Flannery O’ Connor.Paolo VI gli propose la beretta cardinalizia che egli rifiutò. Morì a Monaco il 1ottobre 1968.
Questi brevi cenni alla sua biografia sono necessari, oltre che utili, a meglio comprendere come si generi e si affermi, nell’ambito della sua ricca e complessa speculazione filosofica, la sua concezione dell’Europa. Dice infatti Silvano Zucal, che ha curato le riflessioni guardiniane sull’Europa: «Al di sopra e al di là della tensione polare c’è sempre e comunque l’unità. E l’unità necessaria per ricomporre il proprio “io” frantumato dal duplice destino biografico, Guardini la trovò nell’essere europeo. In una sorta di bilancio, a settant’anni, egli ricorda la feconda e liberante scoperta di quell’”unità”: “[…] il fatto – Europa. Lo riconobbi però, allora, come la base, unicamente sulla quale potessi esistere: familiarizzatomi intrinsecamente con la natura tedesca, ma attenendomi con fermezza fedele alla prima patria, ad entrambi gli atteggiamenti non come giustapposizione, ma fusi come una cosa sola nella realtà “Europa”, che certo nasce da necessità storiche, ma anche dalla vita di coloro che ne fanno l’esperienza nella propria esistenza.»
In Europa e Gesù Cristo, del 1946, Guardini per prima cosa si pone l’interrogativo circa l’identità e l’essenza dell’Europa, non riducibile né ad una mera espressione geografica, né tantomeno ad un mero insieme di popoli di lingua e cultura diversa. Essa è una “forma spirituale” vivente e pienamente operante. La sua storia, che in qualche maniera ha forgiato e disegnato questa “forma spirituale” data a partire da quattromila anni addietro e non è, secondo il filosofo italo-tedesco, paragonabile a nessun altra in quanto a ricchezza di energia, forze, personalità, a profondità di movimenti e a destini vissuti, per completezza e pregnanza di senso immessi “negli ordini di vita” da essa creati.
«Essa si innalza sempre di nuovo nella costruzione delle città e dalle forme dei paesi. Agisce nelle lingue – e quali lingue! – dal discorso luminoso dei greci e dal discorso dei romani, col suo sovrano dominio della forma, fino agli idiomi carichi di storia dei moderni popoli europei. Determina il modo di pensare, il carattere del valutare, il modo di sentire e di vivere. È una realtà come è una realtà la struttura essenziale del cristallo di roccia, della quercia, dell’aquila, del contadino o dell’artista, solo molto più ricca in forme e stratificazioni, in forze e tensioni -ma anche perciò molto più vulnerabile e minacciata di pericoli.»
Nel suo pensiero è assai viva e desta la preoccupazione che una malintesa concezione dell’Europa possa produrre un annacquamento globalista ed omologante delle identità nazionali e dei valori patriottici; rischio, quest’ultimo, che, pur di segno opposto, finisce per essere altrettanto insidioso dello sciovinismo chiuso e gretto. Egli si chiede: è possibile mettere insieme l’amore per la patria e tenere al suo onore pur non rinunciando ad una realistica propensione sovranazionale? C’è spazio per la fedeltà alla propria identità nazionale in uno spazio organizzato più vasto e a base continentale?
A questi interrogativi egli risponde affermando che occorre evitare di cadere nell’astratto cosmopolitismo, come se si trattasse di una sorta di moda da seguire: l’apparire o il voler essere “globali” o continentali. Da questo tipo di mentalità «sorge il cosmopolita, come quell’uomo che in nessun luogo risponde con la sua vita, perché egli può andarsene altrove trovandosi ugualmente bene. In maniera normale la nazione rappresenta il luogo del radicamento vitale – tuttavia non più nella sua precedente forma chiusa, ma così che essa sia coordinata insieme con altre nazioni nel continente europeo; forma di vivere caratteristica satura di storia, ma che rappresenta un organo nel contesto più vasto. Da essa abbiamo l’europeo olandese, belga, francese, tedesco. […] Qui la nazione consegue un nuovo significato.»
Questa tensione a voler vedere insieme e coese quelle che egli definisce “opposizioni polari”, quali le nazioni del vecchio continente, è resa necessaria (ed impellente ne è il compimento)per la crisi che l’Europa sta vivendo ad opera di una sorta di patologia della sua “forma spirituale”. Gli effetti di questa “malattia” finiscono per riflettersi e riversarsi anche sulle singole nazioni europee, a dispetto magari della loro più o meno rigida chiusura o mancanza di apertura. Di questa problematica che, tra l’altro, contribuisce a definire un “compito” ed un possibile destino per l’Europa del terzo millennio ci si occuperà in una prossima riflessione su queste stesse pagine.