Cinquant’anni fa, nell’autunno 1973, il segretario comunista Enrico Berlinguer, prendendo spunto dal golpe militare del generale Pinochet che in Cile aveva deposto il presidente socialista Allende, con tre articoli pubblicati su Rinascita – rivista fondata da Palmiro Togliatti – il 28 settembre, il 5 ed il 12 ottobre, formulava una proposta politica tesa ad evitare all’Italia “un largo fronte di tipo clerico-fascista” saldato da un’alleanza “stabile e organica tra il centro e la destra”.
Premesso che l’Italia non ha mai avuto una tradizione golpista e, quindi, nulla poteva avere in comune con il colpo di stato verificatosi in Cile nel settembre 1973, la proposta del leader comunista derivava dalla impossibilità per il Pci e le forze di sinistra di raggiungere il 51% dei consensi per governare. Pertanto, vista la impossibilità di una “alternativa di sinistra”, Berlinguer vaticinava una “alternativa democratica” in cui sarebbero state protagoniste, in una “prospettiva politica di collaborazione”, le “forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico”. Si trattava della proposta comunemente definita di Compromesso Storico.
Naturalmente, il maggior referente per il Pci non poteva che essere la Dc – partito di centro modellato da De Gasperi per guardare a sinistra – non solo in termini di pregresse e naturali alleanze (1944-47), ma anche in termini di consociativismo.
In un contesto altamente drammatico, in un Paese allo sbando in cui imperversavano stragismo e terrorismo, criminalità organizzata e violenze generalizzate miscelati a crisi morale, istituzionale, sociale ed economica senza precedenti, la proposta di Berlinguer cominciò a prendere corpo avendo come principale interlocutore e tessitore il leader Dc Aldo Moro.
Nelle elezioni regionali del giugno 1975, con il 33,46 % dei voti il Pci conseguì un grande successo che lo vide avvicinarsi alla Dc attestatasi al 35,27%. Si giunse così alla drammatica campagna elettorale del giugno 1976 dove gli italiani furono chiamati ad eleggere, anticipatamente, per la seconda vota consecutiva, il VII Parlamento della Repubblica.
Il verdetto fu inequivocabile: vittoria netta del Pci con oltre il 34% dei voti (+ 7% rispetto al 1972). Vista come una forza capace di rinnovare le istituzioni, i comunisti, forti anche di un largo consenso giovanile, conseguirono messe di voti anche da quella parte di elettorato – non di sinistra – che disdegnava un certo malcostume democristiano. Impauriti dall’ascesa del Pci, buona parte di quegli elettori moderati che quattro anni prima avevano votato massicciamente a Destra, si mostrarono sensibili al richiamo anticomunista della Dc che conseguì il 38% dei consensi. A nulla servì l’alleanza fra Msi-Dn e Costituente di Destra che, con un deludente 6,11%, non fece presa sull’elettorato moderato. Quante alle altre forze, Psi e Pri rimasero stabili, il Psdi subì una netta flessione, falcidiati i liberali condotti al disastro nell’ultimo fallimentare decennio (1964-1972) della ventennale segreteria Malagodi e da quella altrettanto rovinosa di Bignardi (1972-76). Ottimo successo ottennero i Radicali di Marco Pannella ed i comunisti di Democrazia Proletaria in aperta contestazione, questi ultimi, con il Pci.
Per quanto in quella campagna elettorale Dc e Pci si scontrarono duramente, alla fine fu Compromesso Storico (agosto 1976 – gennaio 1979) con due Governi monocolore Dc retti da Giulio Andreotti basati sulla granitica alleanza Dc-Pci che ebbe per comprimari Psi, Psdi, Pri, Pli. I liberali, guidati dal neo segretario Valerio Zanone, si defilarono dal II Governo Andreotti – del Compromesso – il 16 marzo del 1978, giorno in cui venne falciata dalle Brigate Rosse la scorta dell’onorevole Moro con conseguente rapimento di quest’ultimo, rinvenuto morto il 9 maggio successivo.
A questo punto è opportuno esaminare il ruolo svolto in quel periodo dalle forze socialiste e democratiche, Psi e Psdi, il cui rapporto con il Pci fu sempre travagliato. Il Psdi ebbe in Giuseppe Saragat quel leader riformista che nel gennaio 1947, captando la natura totalitaria del Pci, abbandonò il Psiup per dare vita al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (Psli) in seguito divenuto Psdi. La mossa di Saragat provocò la crisi del II Governo De Gasperi che, a sua volta dette vita al suo terzo Esecutivo formato da Dc, Pci, Socialisti di Nenni. Solo nel 1960, nonostante divisioni interne e conseguenti scissioni, il Psi riuscì a smarcarsi dalle grinfie del Pci cominciando a collaborare nuovamente con la Dc- Anche il rapporto fra Psi e Psdi fo costellato da unificazioni e scissioni.
Perché, dopo essersi faticosamente affrancati dai comunisti, Psi e Psdi parteciparono al Compromesso Storico? Fu conveniente, in quel momento, posizionarsi in un’alleanza in cui i principali attori, Dc e Pci, rappresentavano complessivamente oltre il 70% dell’elettorato? Non sarebbe stato più conveniente collocarsi in opposizione al Compromesso Storico visto che, proprio le forze di opposizione, tra l’altro ideologicamente contrapposte fra di loro, missini, radicali, demoproletari, raccoglievano in un Parlamento di poco più di 915 parlamentari, solo 56 fra deputati e senatori?
Nel merito abbiamo posto alcune domande al professor Andrea Spiri, titolare di contratto per insegnamento integrativo dei corsi di “Teoria e Storia dei movimenti e dei partiti politici” e di “Storia contemporanea”, e assistente alla didattica del corso di “Storia delle Istituzioni e dell’Amministrazione” presso il Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss, autore di numerose pubblicazioni a carattere scientifico in tema di politica estera ed interna.
Professor Spiri, perché le forze politiche rifacentesi alla socialdemocrazia, Psi e Psdi, aderirono al Compromesso Storico quindi ai governi di Solidarietà nazionale?
“Le elezioni del giugno 1976 accentuarono i connotati bipolari del sistema politico italiano e consegnarono al Paese due vincitori: la Democrazia cristiana e il Partito comunista raccolsero congiuntamente il 73,1% dei suffragi, ottenendo il 77,8% della rappresentanza parlamentare complessiva in termini di seggi alla Camera. A quei dati fece da contraltare il tracollo delle forze laiche minori, soprattutto socialdemocratici e liberali, e il risultato deludente del Psi, arrivato al limite di guardia – per utilizzare le parole di Pietro Nenni – sotto il quale non si poteva scendere senza perdere i caratteri di un partito di massa. In un contesto simile, nel momento in cui venivano rafforzandosi le prospettive di una collaborazione fra Piazza del Gesù e Botteghe Oscure, si riducevano di conseguenza gli spazi di manovra per tutti gli altri attori politici, costretti a muoversi nella cornice consociativa definita dai due ‘partiti Chiesa’ per non condannarsi definitivamente all’irrilevanza. Per il Psi e per il Psdi, in sostanza, si trattava di una scelta obbligata”.
Preliminarmente all’adesione, Psi e Psdi si consultarono?
“I tanti corsi e ricorsi nella storia dei rapporti fra le due anime del Socialismo italiano non consentivano eccesive illusioni sulla possibilità di definire una strategia comune. Era ancora troppo vivo il ricordo del fallimento dell’esperienza del Partito Socialista Unificato e gli anni del centro-sinistra non avevano contribuito a rasserenare gli animi. I canali di comunicazione tra i due partiti restavano naturalmente aperti, ma prevaleva un sentimento di diffidenza reciproca”.
Quando il Compromesso Storico nacque, nell’agosto del 1976, da pochi giorni, il Psi era guidato da un giovane leader riformista, Bettino Craxi. Non essendo un massimalista ma, appunto, un socialista democratico, se Craxi avesse guidato da più tempo il Psi, avrebbe aderito ugualmente al Compromesso Storico?
“Difficile ragionare con i ‘se’. In quella particolare contingenza storica, comunque, Craxi non avrebbe potuto muoversi diversamente da come fece, per tutta una serie di ragioni. Il Psi versava in una profonda crisi ideale e politica, prima ancora che organizzativa ed elettorale, tanto è vero che alcuni fra i più autorevoli commentatori del tempo giunsero a formulare la tesi del ‘socialismo in via di estinzione’, mettendo in dubbio le prospettive stesse di sopravvivenza del partito di Via del Corso. E poi Craxi scontava un’iniziale debolezza interna, anzi la sua stessa elezione alla segreteria venne interpretata come una scelta di transizione, favorita dalla scarsa consistenza della corrente degli autonomisti di cui egli era parte”.
Nei giorni del sequestro Moro, Craxi, fautore della trattativa con i terroristi rossi al fine di salvare la vita al leader Dc, si attirò durissimi attacchi in primo luogo dal Pci. Certo è che la linea della trattativa di lì a poco avrebbe perso corpo con la legge sui pentiti. Perché, in tal caso, il Pci – e non solo il Pci – non protestò duramente? Aveva captato il Pci che Craxi poteva divenire un pericolo – cosa poi avvenuta – per il Partito della Falce e Martello?
“Nella primavera del 1978, dinanzi alla drammatica vicenda Moro, si esplicitò la reazione socialista al senso di emarginazione suscitato dal massimo avvicinamento fra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù, reazione che segnò anche l’inizio di un profondo contrasto – mai più ricomposto – fra Craxi ed Enrico Berlinguer. Nella visione del segretario socialista, la linea della ‘fermezza’ finiva per produrre un immobilismo ‘pregiudiziale e assoluto’, che portava ad escludere persino la ricerca di ogni ‘ragionevole e legittima possibilità’ di salvare la vita del presidente della Dc. C’era naturalmente in quella posizione un interessato calcolo politico riconducibile alla necessità di aprire fronti polemici attraverso i quali veicolare l’immagine di un partito che non si rassegnava ad essere subalterno, che voleva scrollarsi di dosso il timore reverenziale nei confronti dei democristiani ed emanciparsi dalla condizione di parente povero del Pci. Ma c’era pure una convinzione profonda, che traeva ispirazione dal filone del socialismo umanitario, l’idea cioè che la vita di un uomo valesse molto di più, che non la si potesse sacrificare sull’altare della ragione di Stato. Dal canto suo, Berlinguer temeva soprattutto le ricadute ‘politiche’ delle azioni delle Brigate rosse, che parlavano un linguaggio non estraneo alla tradizione della sinistra comunista e che avrebbero potuto creare ostacoli al percorso di legittimazione che il leader di Botteghe Oscure stava perseguendo con insistenza. L’inedito protagonismo di Craxi rappresentava certo una minaccia, subito percepita nella sua gravità dal gruppo dirigente del Pci: per rendersene conto, basterebbe rileggere le note e gli appunti di Antonio Tatò”.
Tatò fu il segretario particolare di Berlinguer. Con il venir meno del Compromesso Storico, le elezioni politiche – per la terza volta anticipate – del giugno 1979 punirono il Pci, stabilizzarono la Dc, ma fecero registrare una leggera avanzata di Psi e Psdi. Politicamente che vantaggio trassero le citate forze riformiste dal Compromesso Storico?
“In termini immediati, nessuno, e il dato elettorale ben lo testimonia. Ma la stabilità garantita al sistema politico in quel preciso tornante, segnato anche dalle tensioni internazionali dovute al riacutizzarsi della Guerra fredda, finì per avere effetti positivi sull’immagine stessa dei due partiti, che rafforzarono il loro profilo di forze responsabili anche agli occhi dei partner esterni. La vicenda degli euromissili, che segnò il tratto conclusivo dell’esperienza della solidarietà nazionale, è certamente significativa in tal senso, perché consentì al Psi di Craxi di tornare al centro delle dinamiche politiche e di modificare a proprio vantaggio gli equilibri sistemici”.
Quanto il Compromesso Storico ha impedito la mancata nascita di una forza socialista, democratica e riformista, tuttora assente nel panorama politico italiano?
“Non vedo francamente un collegamento diretto fra le due questioni. L’assenza nel panorama politico italiano di una forza socialista, democratica e riformista, è figlia di ben altre dinamiche e intreccia il lungo ‘duello a sinistra’ combattuto sulle sponde opposte di Via del Corso e Botteghe Oscure nell’ultimo scorcio del secolo scorso. Fu dopo la caduta del muro di Berlino che comunisti e socialisti ebbero davanti a loro l’opportunità di favorire un diverso corso della politica nazionale, lasciandosi alle spalle decenni di scontri e di avversioni. Ma il terreno più naturale per il superamento delle antiche divisioni, il più utile per la definizione di una reale prospettiva d’avvenire, non venne neppure coltivato: sulle ragioni unitarie prevalsero anacronistiche idiosincrasie e frizioni reciproche. Le evidenti contraddizioni di cui il Pci-Pds dava prova nel liberarsi del vecchio involucro ideologico che ne impediva lo sviluppo delle potenzialità di governo, unitamente al prevalere di un orientamento settario che escludeva qualsiasi tipo di accordo con i socialisti ‘geneticamente modificati’, provocarono l’irrigidimento del Psi, a sua volta indotto a mantenere immutati gli equilibri governativi – e dunque il rapporto di collaborazione con la Dc – senza rischiare un investimento con una politica di rottura”.