Il bel saggio di Marcello Veneziani, dedicato a Giovanbattista Vico, che noi abbiamo recensito su queste stesse pagine, ha di fatto rimesso al centro della riflessione e del dibattito intellettuale questo grandissimo pensatore italiano sul quale da tempo era calato il velo del silenzio e dell’oblio.
Uno dei meriti del saggio di Veneziani è quello di aver accennato alla dimensione europea del pensiero di Vico chiarendo al tempo stesso che il termine “europeo” deve intendersi inclusivo anche della proiezione romana e mediterranea della cultura del vecchio continente sfuggendo a qualsivoglia riduzione alla sola area nordico-protestante.
La dimensione europea del pensiero di Vico risiede anche nella sua propensione a interfacciarsi con le variegate e differenti culture del suo tempo fino ad esserne da esse assorbito “a tranci” e diffuso “a lacerti”, come efficacemente e plasticamente riferisce Veneziani.
Un trancio di quel pensiero venne “recuperato” dagli illuministi meridionali “emigrati” in quel di Milano (Vincenzo Cuoco e Francesco Lomonaco), in testa a tutti, e contrapposto al meccanicismo e al razionalismo dei lumi di scuola francese e giacobina. Questi intellettuali, tutti protagonisti della fallimentare esperienza della Repubblica Partenopea, vollero opporre, con il pensiero di Vico, il senso della storia e la concretezza del vero all’astrattismo geometrico e razionalistico dell’illuminismo d’oltralpe. Nella Milano napoleonica questa battaglia culturale ed ideologica contro i “santuari” della cultura dominante rappresentò il riflesso di una vera e propria battaglia politica che gli esuli meridionali pagarono con le pesanti conseguenze della follia per Cuoco e del suicidio per Lomonaco.
I semi di pensiero vichiano sparsi dai “napoletani” lasciarono però in Ugo Foscolo e soprattutto in Manzoni tracce e fermenti destinati di lì a qualche decennio dopo a far maturare il romanticismo foscoliano e manzoniano. Questa corrente di pensiero vichiano, che ebbe sorgente nei pensatori ed ideologhi illuministi napoletani e meridionali e sbocco nel romanticismo italiano più maturo ed originale, è stata definita dagli studiosi Sergio Moravia e Fabrizio Lomonaco “vichismo”.
«Anche un milanese, Alessandro Manzoni, esprimerà un giorno un analogo giudizio: “Lomonaco era un uomo di talento, come tutti gli emigrati napoletani del 1799. Quella emigrazione concorse alla coltura in Lombardia. Non conoscevamo quasi il Vico, e furono gli emigrati napoletani che ce lo fecero conoscere”. Così Sergio Moravia riassume gli effetti del “vichismo” sulla cultura lombarda che veniva in tal modo predisponendosi alla stagione romantica.
Ma, a significare il carattere controverso, e spesso contraddittorio, delle viarie interpretazioni del pensiero di Vico, nel 2007 giunse un saggio di Zeev Sternhell dall’emblematico titolo di Contro l’Illuminismo. Lo storico israeliano cita ben 58 volte il pensatore napoletano annoverando la sua filosofia politica all’interno di quel filone (che oggi si potrebbe definire “conservatore”) che va da Herder, passando per Edmund Burke, per giungere fino a Croce, Gentile, Voegelin, Guardini e Isaiah Berlin. Sostiene Sternhell: «Né Herder né Burke hanno conosciuto Vico, e la loro battaglia contro i Lumi francesi nulla deve alla Scienza Nuova. Ma, man mano che ci si inoltra nel XIX secolo e che la traduzione di Michelet, messa a disposizione del pubblico europeo nella grande lingua della cultura dell’epoca, comincia ad essere conosciuta davvero, il rifiuto dei Lumi che questo testo comporta, l’antirazionalismo al quale Vico appone il sigillo del genio, iniziano a dare i loro frutti.»
Secondo il saggista israeliano il pensatore napoletano si è contrapposto all’universalismo atemporale del pensiero moderno con una sorta di “relativismo” storicista. Per Hobbes, Kant e Locke il diritto è basato su di una visione atemporale della giustizia, universalmente e razionalmente riconoscibile. Per Vico le norme in vigore in qualsiasi epoca della storia non possono essere assolutamente idonee a governare l’uomo dei primordi. Ogni epoca ha i propri costumi, frutti dell’imitazione e dell’emulazione, intesi quali capacità primarie dell’uomo. I costumi inoltre, proprio perché nascono dall’imitazione e dall’emulazione, sono elaborati non solo in funzione delle differenti epoche ma anche dei luoghi e dunque della Nazioni.
Chi ha contestato questa lettura “relativista” delle concezioni vichiane mettendone in risalto, al contrario, il fondamento valoriale universale ed eterno, è stato lo storico della letteratura italiana Rocco Montano. Vico stesso aveva affermato nella Scienza Nuova: «Cagione del giusto non è l’utilità variabile ma la ragione eterna, il diritto naturale egli è un diritto eterno che corre in tempo.» Le diverse fasi che il diritto ha registrato, con il corollario delle proprie caratterizzazioni dovute al tempo e al luogo che esso hanno partorito, per Vico, tenderebbero sempre più verso una maggiore approssimazione ad un senso eterno del Vero e del Giusto.
Dice Montano: «Ma è poi certo che non potrebbe esserci nessun processo verso la moralità, gli stessi fatti storici non potrebbero essere spiegati senza presupporre una costitutiva capacità di discernimento e una spinta innata in ciascun uomo, quella che Vico chiama “forza del vero”».
In altri termini, secondo Vico, dietro le imperfette e differenti approssimazioni delle leggi degli uomini c’è un fondamento di assoluto ed una concezione suprema del Bene. L’uomo accetta la legge se in essa vi scorge qualcosa di corrispondente a ciò che egli percepisce ed intuisce come giusto e conforme al divino, se vi percepisce invece qualcosa di arbitrario, dovuto ai capricci del Governante, o anche di una maggioranza che tiranneggia il proprio popolo, istintivamente l’uomo avverte, spinto dalla “forza del vero”, un moto di repulsione che spesso può sfociare nell’aperta e legittima ribellione. In tal senso, secondo Montano, Vico fu il più rigoroso e tenace avversario dei teorici dello Stato Assoluto e del giusnaturalismo europeo, come lo stesso Machiavelli, Bodin, Hobbes, Grozio e Pufendorf.
Non meno rilevanti appaiono le influenze del pensiero vichiano in settori del sapere non direttamente collegati alla filosofia: l’antropologia di Mircea Eliade e René Girard, per esempio, o la fenomenologia linguistica di Merleau-Ponty, persino la letteratura contemporanea con un’incisiva presenza in Finnegans Wake, l’ultimo capolavoro di James Joyce, e in alcune opere di Cesare Pavese, oppure nel Signore degli Anelli di John R.R. Tolkien.
Se non altro per l’ampio spettro dei filosofi e dei pensatori dei quali avversava e confutava le tesi, per essere stato, d’altro canto, punto di riferimento di una vasta area dell’intellighenzia europea del suo tempo e delle epoche successive, una proiezione europea della speculazione filosofica di Giovanbattista Vico è innegabile.
Paul Hazard definiva Vico: “quell’eroe del pensiero e quel genio originale”, e riteneva che se l’Europa avesse prestato più attenzione e dato maggiore ascolto a ciò che Vico andava sostenendo nella Scienza Nuova, avrebbe scoperto che non la ragione era la nostra facoltà primaria ma l’immaginazione e avrebbe preso coscienza che la ragione ha di fatto inaridito la nostra anima. Gli europei avrebbero rimpianto ciò che i loro avi avevano costruito nel passato. Avrebbero inoltre appreso che la spiegazione delle cose proveniva dalle profondità dei tempi. Così “tutte le loro idee sarebbero state rovesciate, come tutta la loro concezione del mondo».
Forse proprio questa sostanziale avversione al mondo moderno o a ciò che di esso, nei suoi anni, andava palesandosi e affermandosi, condannarono il pensiero di Vico ad agire per vie sotterranee (underground) come un fenomeno carsico che, per fortuna, tutt’oggi risulta ancora vivo e in grado di parlare all’uomo del nostro tempo, soprattutto all’Europa odierna.