Soleggiato quanto freddo sabato di metà febbraio, Milano pare davvero inaffrontabile per un provinciale in gita culturale, congestionata com’è in ogni dove, vieppiù nel tragitto impervio che da Piazza della Scala, attraversando galleria Vittorio Emanuele II, porta a piazza Duomo; superata a fatica la formicolante barriera umana del sagrato – autoscatti e piccioni, turisti e questuanti, allogeni in posa cartolina – non resta che affrontare la lunga coda a palazzo Reale, prima di accedere alla tanto agognata mostra di Hieronymus Bosch; esposizione curata da Bernard Aikema, Fernando Checa Cremades e Claudio Salsi, Bosch e un altro Rinascimento (visitabile fino al 12 marzo), porta un titolo alquanto equivoco, sul quale varrà la pena spendere qualche riflessione più in là, una volta terminata l’esperienza e riordinati i pensieri.
Va detto che il percorso espositivo, nelle stanze in penombra, si dirama, o forse meglio s’intreccia e srotola, a più livelli di lettura con una logica coerente, rivelando nessi e affinità tematiche a largo raggio, irradiazioni oniriche financo subliminali che dalle terre fiamminghe giungono al Mediterraneo, principalmente in Spagna, Francia e Italia. Non solo dipinti, anche arazzi, sculture, incisioni, libri antichi, documenti (Leonardo da Vinci, dal Codice Trivulziano), uccelli imbalsamati e tutto un armamentario esoterico per wunderkammer, antichi strumenti musicali, prototipi d’automi, vanitas, epperò anche superflue videoproiezioni contemporanee, soliti giochini interattivi, specchi deformanti, gadget all’uscita. Albrecht Dürer, Pieter Bruegel il Vecchio, Jacob Van Swanenburg, Herri met de Ble, Arcimboldo ed altri fanno da nobile corollario a questa incredibile allegoria pittorica, assieme a svariate tele attribuite ad emuli del maestro, invero riconoscibili per resa stilistica leggermente meno certosina. Le opere più importanti di Bosch – Trittico delle Tentazioni di sant’Antonio, Trittico dei Santi Eremiti, Giudizio Finale (manca, ahinoi, la psichedelia celestiale del Giardino delle delizie) – data la ressa al cospetto delle tavole, risultano di ardua accessibilità, non più di qualche minuto a disposizione quando servirebbero ore per tentare una ipotetica decrittazione. Quando, semmai, servirebbe essere soli, chiusi dentro in eremitaggio per giorni con una lente d’ingrandimento all’occhio.
L’itinerario dei sogni e degli incubi minuti, sì proprio quello del Bene e del Male – di Cristo in cielo o assente mentre l’industriosa cloaca umana in basso, collassa buffamente nella celeberrima valle di lacrime – si manifesta sotto forma di naïf strafatto e precisissimo, con esordienti esotismi d’elefanti nell’arte europea, orifizi inesausti messi in pittura, lumache rospi, un autoscatto al culo (l’origine del selfie), coppie d’innamorati in fuga dal mondo a bordo di pesci volanti, imbuti metallici in capo, futuri astronauti, sfere magiche, messe nere, punizioni corporali e castighi divini, tentazioni pavoni e uova cosmiche, spore, ratti, carpe magiche, fogne liquami mefitici vacua laboriosità di pigmei, stagni e immondi tuguri, eremiti, incendi sullo sfondo, apocalissi imminenti, poi si vedrà come e quando salvarsi. Bestiario folle, deforme umanità, delirio consortile, precisione maniacale nel dettaglio, nell’idea generale di caos, surrealista eoni prima del surrealismo, Dalì paga dazio all’ispirazione liquida, rifratta deforme, esattamente come Francis Bacon, Lucien Freud e Max Ernst, in mostra qualche metro più in là.
Hieronymus Bosch fu attivo tra i confratelli di Nostra Diletta Signora, associazione esclusiva “per meritevoli” dedita alla devozione alla Vergine, aperta a maschi e femmine, laici ed ecclesiastici, la quale aveva come simbolo un giglio tra le spine (sicut lilium inter spinas), sodalizio promiscuo che a quei tempi avrebbe anche potuto dare adito a sospetti d’eresia catara, vieppiù a Bruges, dopo i fasti del XV secolo – ricchezza, commercio, banche e l’arte di Jan van Eyck lo dimostra – già in declino. Qui un cenno utile a comprendere il contesto storico lo può offrire il film L’opera al nero, liberamente tratto dal romanzo di Marguerite Yourcenar; la pellicola rende assai bene il clima di tensione fra libero pensiero nascente – riadattando Meister Eckart, mica il post-illuminista Umberto Eco – ed ortodossia cattolica, mentre aleggia non troppo distante lo spettro del protestantesimo. Altre suggestioni, musicali stavolta, vengono dal duo australiano Dead can Dance, fautori di dischi fortemente ispirati alla pittura del fiammingo: Aion (1990) riporta in copertina un particolare tratto dal Trittico del Giardino delle delizie. Tuttavia Bosch, a discapito di sospetti luciferini, era molto amato dai potenti, suoi committenti, all’epoca probabilmente adusi a più ampie vedute riguardo ad un artista che trattava di navi azzurre dei folli e di estrazione della pietra della follia dal cervello. Stravaganze. Qualche pestilenza in arrivo, certamente, il pittore nei suoi presepi folkloristici quanto allucinati, ignora completamente la via umanista rinascimentale italiana, ovvero il recupero del codice classico tarato sull’uomo – o la città – ideale, in favore di un eterno medioevo, allegorico grottesco coloratissimo irrazionale, libero di osare una sintesi estetica tra sogno ed incubo, tra peccato e redenzione, comunque sia – da Cioran a Céline – collocando l’umano escremento (Schopenhauer) nella latrina dove è giusto che stia.
Bosch è certamente un pittore reazionario, anzi atemporale, forse come tutti gli artisti inconsapevole della Storia e dei suoi dazi doganali, il quale travalicando tempo e spazio rifiuta o volutamente ignora i codici rappresentativi del suo tempo, eppure retrocedendo senza rimedio negli abissi demonici paradossalmente incontra il futuro, lo dipinge prima del tempo, ne fa premonizione e ciò è facilmente riconoscibile nei particolari – tutti i suoi dipinti sono ramificazioni di dettagli, minutaglie degeneri, inanità di machinari inceppati, concatenazioni di collassi sociali, miserie ed accattonaggi di anonimi disperati messi a giogo – laddove appaiono scene che all’oggi potremmo definire di fantascienza retrodatata, di alienazione distopica. Florenskij ebbe a dire che il cosiddetto Rinascimento, coi suoi ritratti di santi madonne cristi e principi mondani davvero ben fatti, andava a tradire esteticamente e quindi essenzialmente l’umile, anonima, pratica pittorica dell’avvicinamento a Dio, la manifatturiera creazione di icone; ebbene Hieronymus Bosch salta a piè pari tutto l’umanesimo verniciato signorile per consegnarsi all’oblio, per votarsi al sogno fagocitante che si mangia addosso in una sorta di estesa periferia umana degenere, boccheggiante, di squallore ottimamente organizzato su tela, tenendo fermamente il punto tra alto e basso, tra paradiso e inferno, tra empi e redenti. Davvero c’è di tutto, un mondo ed oltre, fuorché il progresso, semmai il regresso, un ottimo escamotage per continuare a pregare.