I gravissimi avvenimenti medio-orientali di questi giorni hanno distolto l’attenzione del mondo dalle battute finali di una trentennale “guerra dimenticata”: quella del Nagorno Karabakh, enclave armena in territorio azero resasi indipendente, seppur senza riconoscimento internazionale, con il conflitto del 1992-1994 fra Armenia e Azerbaigian. Un finale triste e decisamente inglorioso per Yerevan, ma che elimina dalla vita politica e sociale armena un grande e a lungo insuperabile condizionamento, secondo soltanto a quello del “genocidio” avvenuto per mano turca durante la Prima Guerra Mondiale.
Il genocidio
Ma partiamo proprio dalla questione del “genocidio” (Metz Yeghern, grande disgrazia), che ha avvelenato da sempre i rapporti fra Armenia e Turchia. Con due confini su quattro, quello turco e quello azero, storicamente chiusi e pur intrattenendo eccellenti relazioni con l’Iran (con il quale condivide però una frontiera di poche decine di km), l’Armenia deve basarsi, per la massima parte del suo traffico commerciale, sulla rotta del Mar Nero, tramite la Georgia, con conseguenti gravi problemi di approvvigionamento in circostanze di crisi. Per questa ragione e per le debolezze strutturali del suo sistema produttivo, totalmente dipendente dalle forniture energetiche russe e iraniane, Yerevan avrebbe tutto l’interesse ad avviare relazioni politiche e soprattutto economiche “normali” con Ankara, attribuendo meno risalto all’azione volta a ottenere il riconoscimento internazionale del genocidio: tanto più che non tutti gli storici e giuristi concordano sull’opportunità di far ricadere quegli avvenimenti, per quanto terribili, sotto una fattispecie che il diritto internazionale ha disciplinato soltanto dopo il 1945.
Si tratta di un’opportunità, quella di affrancarsi – quantomeno nei rapporti internazionali – dal peso del genocidio, che alcuni politici armeni colgono, ma per la quale di fatto nessuno lavora, risultando molto più conveniente utilizzare a fini elettoralistici il risentimento antiturco che ancora cova nella popolazione e, soprattutto, nella ricca diaspora in Europa e negli Stati Uniti, finanziatrice di partiti e progetti di sviluppo nella madrepatria. E’ da sempre difficile, se non impossibile, per un politico armeno assumere una posizione equilibrata sulla Turchia – e sui rapporti con il suo “protégé” Azerbaigian – senza essere tacciato di tradimento. Ed è sostanzialmente per questo che, fin dal dissolvimento dell’Unione Sovietica, l’Armenia è rimasta la “grande esclusa” del Caucaso: una vera e propria “isola” priva di sbocco al mare che, proprio a causa di tale isolamento, ha sviluppato una politica estera spesso dettata – al netto dello stretto legame con Mosca – da una sostanziale incapacità di definire i propri reali interessi geopolitici. Isolamento, fra l’altro, pagato molto caro anche in termini di sviluppo culturale della popolazione, che in gran parte ancora rimpiange la relativa sicurezza di cui godeva sotto l’URSS, senza trovare valide alternative nell’attuale, problematico modello di sviluppo; e che, di conseguenza, è spesso sensibile alle sirene populiste.
Il ruolo del primo ministro Pashnyan
Neppure l’attuale Primo Ministro Nikol Pashinyan, già giornalista investigativo, fustigatore di oligarchi e, come tale, oggetto di varie inchieste giudiziarie, arrestato nel 2009, liberato per amnistia nel 2011 ed eletto in Parlamento l’anno seguente sulla base di un programma incentrato sui diritti umani e sulla lotta alla corruzione, era finora riuscito a migliorare tale situazione. Eletto Capo del Governo nel 2018 sull’onda delle manifestazioni di piazza, dopo un durissimo duello con il filorusso Partito Repubblicano da molti anni al potere, Pashinyan era in realtà riuscito a conseguire un forte miglioramento dell’economia nazionale: nel 2019 l’incremento del Pil aveva infatti sfiorato l’8%. Ma ad attenderlo c’era – e torniamo qui all’oggetto principale di questo articolo – la sempiterna questione del Nagorno Karabakh. Dopo il genocidio, il Karabakh è stato la seconda “pietra d’inciampo” nella storia dell’Armenia indipendente: un’iniziale vittoria militare, trasformatasi poi in una spada di Damocle per tutti i successivi governanti armeni.
La rivincita dell’Azerbaigian
Da tempo, per vendicare la prima bruciante sconfitta, l’Azerbaigian aveva avviato un vasto “build-up” militare finanziato dalle sue ampie risorse di idrocarburi; la guerra scatenatasi infine nel 2020 aveva inflitto agli armeni significative perdite umane e territoriali e Pashinyan, avendo accettato un “cessate il fuoco” patrocinato da Mosca ma ritenuto umiliante dai vertici militari e da buona parte dell’opinione pubblica, era divenuto il primo leader armeno sconfitto dall’odiato nemico. Una scomodissima posizione che, pur dopo aver nuovamente vinto le elezioni nel 2021, Pashinyan ha visto confermarsi e aggravarsi con il rovescio subito il mese scorso nella “guerra di un giorno” con cui Baku si è definitivamente impadronita dell’enclave (le cui istituzioni statuali – secondo gli accordi di cessate il fuoco – verranno dissolte il 31 dicembre di quest’anno, quando l’intero territorio tornerà definitivamente a far parte dell’Azerbaigian). Nell’occasione, l’esercito di Yerevan non si è neppure mosso dalle caserme, esponendo così gli indipendentisti a una bruciante e definitiva sconfitta e la popolazione armena del Karabakh – a rischio di pulizia etnica – a una fuga precipitosa verso la madrepatria.
Come nel 2020, Pashinyan sembra per ora riuscito a sopravvivere alle fortissime proteste popolari causate dall’abbandono dei “fratelli armeni” del Karabakh, attribuendo ogni responsabilità della sconfitta all’inazione del “contingente di pace” russo colà dislocato, restato ad assistere all’invasione azera. In realtà le difficoltà di comprensione fra Yerevan e Mosca, presenti da tempo, si erano intensificate dopo l’invasione dell’Ucraina, a seguito della quale il governo di Pashinyan aveva aperto alla collaborazione anche militare con altri Paesi e criticato l’operato in materia di garanzie di difesa dell’alleato russo, distratto da ben altre faccende; e infine autorizzato per la prima volta, proprio pochi giorni prima dell’attacco azero, un’esercitazione militare congiunta con gli Stati Uniti su suolo armeno.
Il ruolo della Russia
Al momento, è indubbio che Mosca resti per Yerevan un punto di riferimento strategico ed economico: l’Armenia ospita infatti due importanti basi militari russe, mentre la società civile del paese caucasico non nutre in generale gli stessi sentimenti antirussi diffusi in altri Paesi ex sovietici. Molto dipenderà dalle sorti del governo Pashinyan nei prossimi mesi, dagli sviluppi sul fronte ucraino e dal (dubbio) impegno occidentale a spendersi per l’Armenia: a tale proposito, il rischio per Yerevan è quello di sopravvalutare la propria importanza geopolitica, in realtà molto relativa sia per una Russia impegnatissima su altri fronti, sia per un Occidente distratto anche se ingolosito – Stati Uniti e Francia su tutti – dai dividendi politici ottenibili in patria patrocinando gli interessi delle rispettive diaspore armene.
Eppure, a differenza della questione del genocidio, che ha finora impedito la normalizzazione dei rapporti con la Turchia, la definitiva perdita del Karabakh (Artsakh, secondo la dizione armena) potrebbe paradossalmente avviare un circuito virtuoso per Yerevan, sgombrando il campo da un problema che appariva irrisolvibile e che costringeva da molto tempo l’Armenia sulla difensiva.
In definitiva, la perdita del Karabakh, un protettorato mantenuto per decenni al di fuori delle prescrizioni del diritto internazionale (non diversamente dalle repubbliche filorusse separatiste presenti in Ucraina, in Georgia e in Moldova), potrebbe affrancare l’Armenia da un’ombra non indifferente che gravava sulla sua postura internazionale e sulla sua stessa situazione interna: sempre che Pashinyan, appunto, resti in sella, convincendo gli armeni della bontà delle sue scelte.
La fine dell’isolamento
Solo così Yerevan potrebbe iniziare a uscire dall’isolamento politico che l’ha contraddistinta negli ultimi anni. Si pensi a tale proposito anche alle vaste risorse di idrocarburi del Caucaso, di cui l’Armenia è quasi del tutto priva ma che hanno fatto la fortuna del suo avversario azero: fra i pretesti per scatenare la guerra del 2020, l’Azerbaijan aveva indicato improbabili sabotaggi armeni dell’oleodotto Baku–Tbilisi–Ceyhan e del “South Caucasus Pipeline” che trasporta il gas del Mar Caspio verso la Turchia e poi, tramite il Tap, in Europa. Si era allora trattato di un ennesimo esempio dell’isolamento di Yerevan, da sempre esclusa da tali grandi infrastrutture e, nell’occasione, rimasta sola a protestare contro tali inverosimili accuse.
“Non dimenticherò i nostri canti lamentosi, ovunque io sia/
non dimenticherò i nostri libri incisi con lo stilo, divenuti preghiera/
per quanto lacerino il cuore le nostre piaghe sprizzanti sangue/
amerò ancor più la mia Armenia amorosa, orfana, ardente di sangue”.
Così scriveva nel 1914 il grande poeta ed educatore armeno Rupen Zartaryan, ucciso l’anno seguente durante il Metz Yeghern. Ebbene, la lacerata Armenia, la piccola grande isola, il Paese cristiano più antico, per evitare che la sua millenaria cultura e la sua stessa esistenza entrino definitivamente nel dimenticatoio del mondo, dovrà rinunciare a quell’atteggiamento di ripiegamento su sé stessa che l’ha contraddistinta fin dalla sua (ri)nascita nel 1991, accettando finalmente di lanciarsi con coraggio nell’oceano della storia.
Scriveva ‘Ilsole24ore’ del 5 ottobre: ‘Perché Israele ha armato l’Azerbaigian contro l’Armenia. E cosa c’entra l’Iran.
Le forniture hanno spostato gli equilibri nel conflitto che ha causato migliaia di profughi armeni. Israele ha interessi energetici, economici e strategici con Baku. Israele ha silenziosamente sostenuto la campagna dell’Azerbaigian per la riconquista del Nagorno-Karabakh, fornendo armi prima della fulminea offensiva del mese scorso che ha riportato l’enclave di etnia armena sotto il controllo azero’……
….A luglio, il ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant ha visitato Baku, la capitale dell’Azerbaigian, dove ha elogiato la cooperazione militare e la «lotta al terrorismo» congiunta dei due Paesi. Israele ha un grande interesse per l’Azerbaigian, che serve come fonte critica di petrolio ed è uno strenuo alleato contro l’Iran, arcinemico di Israele. È anche un lucroso cliente di armi sofisticate. (Ibidem)