Com’è noto, sul finire del 64 d.C., sotto Nerone, iniziarono le persecuzioni contro i cristiani, che fino ad allora avevano dovuto guardarsi solo dalle dispute, dalle divisioni e dall’aperta condanna del giudaismo. L’occasione fu data dall’incendio di Roma che durò ben sei giorni e distrusse gran parte della città. Per stornare da sé i sospetti, molto probabilmente infondati, Nerone non trovò niente di meglio che offrire in pasto all’opinione pubblica un colpevole, per l’appunto i Cristiani. Lo storico latino Tacito negli Annales scrive testualmente che «per far tacere dunque tali voci, Nerone mise sotto processo e condannò a raffinatissimi supplizi coloro che, già odiati per i loro riti immondi, il volgo chiama Cristiani».
Alfred Loisy, nel ricostruire storicamente, oltre che filologicamente, le origini del cristianesimo, osserva: «Tacito dice che, in un primo tempo, fu arrestato un certo numero di persone che “confessarono”. Ma che cosa confessarono e in quali condizioni? Le discussioni per determinare se confessassero l’atto incendiario o soltanto la loro qualità di cristiani dureranno ancora un pezzo. (…) agli occhi dei romani (…) i cristiani erano considerati come capaci dei peggiori crimini. Inoltre, è possibile che molti, vedendo ardere la Città, abbiano pensato che il castigo cominciava, che la fine era prossima; che non abbiano condiviso l’orrore, il terrore, la desolazione del popolo romano dinanzi alla catastrofe; e che alcuni abbiano dato l’impressione di gioirne. (…) L’atteggiamento generale dei cristiani può benissimo essere stato sufficiente a provare una calunnia, che dev’essere sembrata verosimile a coloro che l’hanno formulata e che deve aver trovato facilmente credito presso le masse» (Le origini del cristianesimo, Il saggiatore, 1967).
La convenienza politica dell’imperatore si saldava, in altri termini, al pregiudizio popolare che disprezzava i cristiani ritenendoli capaci di misfatti o di riti vergognosi. È da questa miscela che scaturirono le persecuzioni contro i cristiani. Ma perché questo discredito nei confronti di una religione che proponeva l’amore universale e con un alto sentimento morale? «Essi erano ritenuti – prosegue il Loisy – capaci e colpevoli dei peggiori crimini; lo si sarebbe creduto anche se i Giudei non avessero un po’ contribuito a tale diffamazione, come affermano gli apologisti del II secolo. Ma Tacito non si ispira ai Giudei, quando, discorrendo di Gesù e dei cristiani, parla di “rovinosa superstizione”».
L’accusa rivolta da Tacito ai cristiani era quella specifica di odium generis humani, di un “odio per il genere umano”, che per lui aveva un significato essenzialmente politico. I cristiani, infatti, professando la fede in un dio unico, che condannava come falsi e ingannatori tutti gli déi venerati nell’impero, andavano contro le idee comunemente accolte dai pagani e, rifiutando il culto all’imperatore, finivano per minare l’autorità dell’imperatore, l’imperium, e mettere in discussione la sua funzione politico-sacrale.
La nozione di imperium, infatti, univa in sé la sfera religiosa e quella politica (guerriera e statuale) e «mantenne sempre il suo carattere intrinseco di forza luminosa dall’alto e di sacra potenza, di là dalle tecniche, varie e spesso spurie, che condizionarono l’accesso ad esso nei diversi periodi.» (J. Evola, Gli uomini e le rovine, Settimo Sigillo, 1990). «Roma era tollerante con tutti gli déi che non fossero intolleranti con lei», nota Loisy, e il rifiuto dei cristiani di sacrificare all’imperatore, in nome della loro fede rigorosamente monoteista, non poteva che essere percepito come una forma di ribellione.
L’idea di Tacito che il cristianesimo fosse una exitiabilis superstitio, un’esecrabile credenza, era largamente condivisa dal ceto intellettuale del tempo. Così Svetonio nella sua Vita di Nerone dice che i Cristiani, malgrado i supplizi inflitti loro, non cessavano di praticare una credenza inusitata e malvagia («afflicti suppliciis Christiani, genus hominum superstitionis novae et maleficae»).
Ma a lumeggiare esemplarmente l’atteggiamento delle autorità e degli intellettuali nei confronti della nuova religione all’inizio del II secolo ci sono le lettere scambiate tra Plinio il giovane, nominato tra il 111 e il 112 governatore della Bitinia, e l’imperatore Traiano. Negli interrogatori cui venivano sottoposti gli accusati, sulla base di denunce spesso anonime, se l’accusato rinnegava la propria fede veniva rilasciato, in caso contrario veniva condannato alla pena capitale. Plinio si rivolgeva all’imperatore per sapere come comportarsi, dal momento che di regola negli interrogatori non emergeva altra colpa od errore se non l’ostinazione nel professare «una credenza perversa ed esagerata» («nihil aliud inveni quam superstionem pravam, immodicam»), ed anzi il “giuramento” (cioè il battesimo) che avevano prestato, lungi dall’indurli a commettere delitti, li obbligava, se mai, a non commettere furti, rapine, adulteri, a non mancare alla parola data e a restituire le somme prestate. Pertanto, sollecitava dall’imperatore una politica di moderazione che tenesse conto dell’età, del sesso, delle condizioni sociali degli accusati e chiedeva espressamente se si dovesse punire il nome di cristiano, malgrado non si accompagnasse ad altre colpe.
A Plinio, che, come scrive Loisy, «era un magistrato filosoficamente educato, che per i cristiani sentiva più pietà che odio» e a cui era estraneo il fanatismo sia dei persecutori sia dei perseguitati, Traiano rispose approvando il suo operato, ma evitando di «prendere in considerazione la separazione proposta da Plinio, tra il nome di cristiano e i crimini che, nell’opinione popolare, andavano associati a esso. Mentre Plinio era proclive ad assolvere coloro che si professassero cristiani, ma non si fossero macchiati di alcuna colpa, Traiano, come già Tacito, risponde come se ritenesse che il nome realmente non fosse mai disgiunto dai delitti di cui li si accusava. Non si avvedeva, però, che prosciogliendo gli apostati, si contraddiceva o assolveva dei criminali. Plinio era più umano, più veramente saggio; Traiano, più politico, ossia, più proclive a trattare la questione conforme al buon senso comune e all’opinione prevalente in quel momento storico (…) D’altra parte, Traiano alla fine si dimostrò più moderato di Plinio, vietandogli di accogliere denunce anonime».
A poco valsero gli sforzi degli apologisti cristiani come Giustino e Tertulliano, che rifacendosi alle parole di Gesù sul tributo dovuto a Cesare, cercarono di assumere un atteggiamento rispettoso verso l’autorità imperiale e di difendere i cristiani distinguendoli dalle sette più radicali e violente, come quelle giudee degli Zeloti, o come quelle eretiche che seminavano discordie e praticavano costumi dissoluti nel nome di un misticismo aberrante, come i Carpocraziani.
Circa questi ultimi, ad esempio, Loisy nota come il loro caso «ci permette di intendere come certe forme di gnosi potessero accordarsi con la più smodata immoralità e offrire motivo alla diffamazione del cristianesimo».
E qui tocchiamo un problema, che non si può ulteriormente ignorare: perché il pregiudizio contro i cristiani era così diffuso, così forte, così radicato nelle masse pagane, sommandosi alle ragioni politiche e alla scarsa conoscenza del messaggio cristiano? Ce lo spiega indirettamente lo stesso Loisy, ponendosi una domanda retorica: «E se il cristianesimo conquistava tanti diseredati, tante anime inquiete, non era forse perché nella società romana c’erano veramente troppi diseredati e nelle dottrine correnti della religione ufficiale e della filosofia troppa incertezza, o troppa durezza, o qualche indigenza morale?».
Ricordiamo, infatti, che il I secolo era un’epoca di crisi storica, in cui gli uomini cominciavano a perdere a poco a poco fiducia nella propria cultura, com’è testimoniato dal pullulare di sette, di credenze, di divinità, di prospettive filosofiche. Durante le crisi il sentimento vitale che si impossessa degli uomini è il disorientamento, che prelude alla disperazione. La vita non basta più a se stessa. Ed allora, come scrive icasticamente Ortega y Gasset, «l’uomo scopre la sua essenziale nullità», ma «il cristiano volge la disperazione in salvezza» (Intorno a Galileo, in Aurora della ragione storica, Sugarco,1994).
D’altronde i primi seguaci di Gesù, gli apostoli, furono reclutati nelle classi più umili, erano pescatori o artigiani, uomini semplici, sofferenti o disorientati, spesso umiliati ed offesi. Si avvicinavano a lui peccatori e pubblicani, prostitute e donne inferme. La parabola della pecorella smarrita citata in Luca (XV, 1-7) e in Matteo (XVIII, 12-14) è, a questo proposito, esemplare. Come pure il racconto della crocifissione: in tutt’e quattro i vangeli sono citati gli altri due “ladroni” crocifissi insieme a Gesù, ed anzi, Luca tra i due malfattori distingue, per premiarlo, il buon ladrone che aveva avuto parole di pietà e non di irrisione nei confronti del Cristo. Ed ancora: san Paolo non grida con veemenza nella sua prima lettera ai Corinzi: «Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo?». E prosegue con un proclama da estremista, «quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono».
Ora, come potevano le plebi rozze e superstiziose dell’impero distinguere il buon ladrone da quello cattivo? Come potevano non confondere i malfattori convertiti al cristianesimo con i malfattori non redenti, i peccatori pentiti con quelli incalliti e recidivi? Per loro un ladrone restava un ladrone. Non c’era salvezza possibile.
Probabilmente da questo modo di considerare le cose sorse il pregiudizio contro i cristiani considerati malfattori a prescindere. Senza contare che dietro le denunce anonime spesso si celavano invidie, ripicche e cupidigia. Il contrasto delle due mentalità, pagana e cristiana, non era insomma facilmente componibile. Se si cerca una raffigurazione plastica e godibile di questo contrasto, possiamo senz’altro rivolgerci a un’opera letteraria di indubbio valore, al Quo vadis? dello scrittore polacco Henryk Sienkievicz.
«Nel corso del III secolo – osserva in conclusione Loisy – il paganesimo finì col divenire sempre più una maestosa facciata, dietro la quale ascendeva il cristianesimo. (…) Ciò che Costantino e i primi imperatori romano-cristiani lasciarono cadere o abbatterono non era più molto vivo. Per questo, appena cessò di essere perseguitato, il cristianesimo diventò facilmente il padrone. (…) Il successo del cristianesimo era stato preparato dalla diffusione dell’ebraismo; ma (…) [il giudaismo] teneva prigioniera, nelle forme di un angusto nazionalismo, un’idea di umanità universale. Tale idea, il cristianesimo la propose, entro l’involucro di un simbolo religioso, a tutti i diseredati del mondo antico, che non avevano patria e accorsero a lui. Il senso di umanità, che a partire dal vangelo, si sviluppò nel cristianesimo primitivo portò la Chiesa cattolica al primo piano della storia».
Nel IV secolo le grandi persecuzioni erano finite e l’aristocrazia senatoriale romana (quella che appoggiò Costantino e Teodosio) pensò d’ingaggiare il cristianesimo come nuovo sostegno dell’Impero. Così il titolo di Pontifex Maximus che era stato di Giulio Cesare e poi di tutti gli imperatori, fino a Graziano, passò al Papa… Il cristianesimo costantiniano fu la sintesi (più o meno riuscita) del vecchio e residuale paganesimo e dell’ebraismo riformato, alias cristianesimo romano… Non fu più una religione di schiavi…Ma rimase intollerante…
Forse non sarebbe male una presentazione, o una critica, di Alfred Firmin Loisy (Ambrières, 1857 – Ceffonds, 1940) noto biblista e storico francese, fondatore del modernismo teologico, scomunicato nel 1907 e professore per decenni al Collège de France….