No, non è questa una recensione di uno dei tanti articoli, saggi, libri che un po’ in tutto l’Occidente sono dedicati al fenomeno in oggetto. Piuttosto una modesta riflessione, scaturita dal prisma Italia, neppure molto ordinata, buttata giù di fretta, senza un piano ben definito. Excusatio non petita… Lo so. Ma a volte le idee si affollano e pretendere di ordinarle, organizzarle, dare alle stesse una logica stringente, può essere un esercizio non solo arduo, ma fuorviante, oltre le intenzioni, che in questo caso non aspirano a dare risposte precise e nette, quanto proporre, appunto, interrogativi e motivi di approfondimento. Merita un pensiero che il primo partito, nel 2022, sia stato l’astensione, con il 36,09%?
Un amico mi faceva notare, giorni fa, il suo ‘fastidio nei confronti di una classe politica di qualità davvero molto povera’, mentre altrove s’intravvede ‘un mondo molto diverso da quello della nostra giovinezza, ma comunque attivo, positivo e stranamente riflessivo, innovativo e di grandi vedute’. Non sto certo a fare un’esegesi del pensiero di un amico, quanto a dare un piccolo contributo ad un tema appassionante, seppur inquietante e non solo in Italia. Perchè sempre più gente rinuncia ad esercitare un diritto fondamentale? Rimaniamo comunque all’Italia, per non ampliare troppo il raggio d’osservazione.
La scarsa considerazione dell’italiano medio per i politici e reggitori della cosa pubblica è vecchia. Scriveva Giacomo Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, nel 1824, pochi anni dopo il Congresso di Vienna, in piena Restaurazione, un saggio breve, frammentario, incompiuto, ma tanto importante per l’Italia quanto La démocratie en Amérique di Tocqueville per gli Stati Uniti o La Russie en 1839 di Astolphe de Custine per la Russia: scritti lucidi, tali da trasformare l’osservazione sul presente in una profezia sempre attuale. Anche un’appassionata riflessione sulla mentalità, il carattere e la moralità della società italiana dall’osservatorio della sua solitudine recanatese, – anche delle sue tanti malattie e limitazioni fisiche, del suo nichilismo – per smascherarne vizi e limiti:
“L’Italia, che è un popolo ma non una nazione, che ha usanze ma non costumi, che non conosce altre occasioni di vita sociale al di fuori del passeggio, degli spettacoli e delle chiese, è del tutto sguarnita dei fondamenti etici che fanno sorgere al proprio interno le nazioni più evolute e di quelli che conservano, con i loro pregiudizi, le nazioni più arretrate, così da risultare svantaggiata sia rispetto ai paesi come la Francia o l’Inghilterra, sia rispetto ai paesi come la Russia o la Spagna. Tanto più lo è in quanto le classi dirigenti, più colte e più ricche ed anche più morali, si sono rivelate inadatte perché le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano il più cinico dei popolacci. Niuna vince né eguaglia in ciò l’italiana. Essa unisce la vivacità naturale (maggiore assai di quella de’ francesi) all’indifferenza acquisita verso ogni cosa e al poco riguardo verso gli altri cagionato dalla mancanza di società, che non li fa curar gran fatto della stima e de’ riguardi altrui. (…) il cinismo è tale che supera di gran lunga quello di tutti gli altri popoli, parlando proporzionatamente di ciascuna classe. Per tutto si ride, e questa è la principale occupazione delle conversazioni; ma gli altri popoli altrettanto e più filosofi di noi, ma con più vita, e d’altronde con più societá, ridono piuttosto degli assenti che dei presenti, perché una societá stretta non può durare tra uomini continuamente occupati a deridersi in faccia gli uni e gli altri, e darsi continui segni di scambievole disprezzo”.
Leopardi stava allora redigendo le Operette Morali. Il suo materialismo ateo si poneva in contrapposizione al Romanticismo cattolico predominante, il suo era il rifiuto di ogni speranza di progresso nella conquista della libertà politica e dell’unità nazionale; la mancanza di interesse per una interpretazione storicistica del passato. Sanciscono il passaggio dal Pessimismo Storico al Pessimismo Cosmico, allorché la natura viene descritta, per la prima volta, come “matrigna” e malvagia.
In quel tempo, anche se pubblicati postumi a Firenze, nel 1867, dalla figlia di Massimo d’Azeglio, Alessandrina Ricci – nipote di Alessandro Manzoni – I miei Ricordi descrivevano atmosfere e governanti della penisola in modo puntuale, disincantato. Una personalità diversa da quella di Leopardi, poliedrica, seduttrice; romantico e cattolico, liberal-democratico. D’Azeglio dà anch’egli un giudizio negativo sul ceto dirigente del suo tempo, torinese e romano in primis. Nel 1814 aveva salutato il ritorno di re Vittorio Emanuele con entusiasmo, nel delirio di tutta Torino finalmente libera. Nel 1821 non aveva partecipato direttamente, ma aveva sperato nella ‘cospirazione politica’ di parenti e cari amici ‘contro l’assolutismo e per la costituzione di Spagna’. Nel nuovo regno di Carlo Felice “Feroce” (per la repressione di tali moti), egli scorgeva ‘l’accumularsi d’ingiustizie e di scioccherie ed erano frutti o d’un esagerato principio monarchico, ovvero di bigottismo’. La Restaurazione ed i suoi uomini lo avevano subito deluso e ripartì per Roma, quella di Leone XII, per apprendervi pittura…alla bohémienne. Pur s’egli fu successivamente Presidente del Consiglio di Vittorio Emanuele II, dopo Novara (1849), al quale, insofferente della politica quotidiana, scettico, consigliò presto Camillo Cavour quale successore. Lo statista, col quale collaborò nella delicata missione a Parigi e Londra, all’inizio del ’59: che nel ’61 sarà poi oggetto di amare riflessioni, al di là di riconoscerne la straordinaria abilità: ‘disfece il Piemonte e non fece l’Italia’.
Cento anni dopo scriverà Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne Il Gattopardo (1958), facendo dire al principe di Salina, suo alter ego: “Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene”. Anche in politica, naturalmente, pur se il suffragio universale maschile del 1913 (la quasi compiuta democrazia rappresentativa) era ancor lontano al tempo della Spedizione dei Mille (1860). Del resto il Tomasi ben capiva, 100 anni dopo, che per essere eletti, non sono i politici migliori…
Tre ricordi casuali, ma che rivelano da un lato la debolezza dell’Italia ‘manzoniana’ e liberale, che nel 1861 trova l’Unità un po’ affrettata e fortunosa, la cui classe dirigente (ancora di nobili, alto-borghesi, intellettuali, non di popolo) risente, forse inevitabilmente, di ‘secoli bui’ alle spalle, ai quali la temperie romantica, idealista (la ‘Terza Roma’ di Mazzini e Crispi) schiuderà ambizioni sconfinate e deleterie. L’Italia monarchica che dal 1911 al 1943 cerca, scriteriatamente, un futuro radioso di affermazione imperialistica, coloniale, ritenendosi una Grande Potenza. Ambizioni smodate. Priva di risorse adeguate, se è vero, come purtroppo lo è, che circa venti milioni di emigranti dovettero cercare un futuro oltre i patrii confini, tra il 1870 ed il 1914. L’eccesso demografico. Pur arrivando la II Rivoluzione industriale, con ‘positivismo’ e lotte sociali. I politici-notabili di quell’Italia erano normalmente onesti, non rubavano e, fino a Giolitti, neppure percepivano uno stipendio. Eppure non godevano, al loro tempo, della grande considerazione della gente comune, forse per le ragioni addotte dal Leopardi, oltre all’irrisolto conflitto tra Stato e Chiesa. In quel ceto politico abbondava la letteratura, il provincialismo, le glorie d’un passato remoto vago, scarseggiava l’economia. Inoltre, il modello centralizzato di Amministrazione, di tipo francese, creò risentimenti (in ispecie contro il Piemonte e per la Leva) che neppur oggi sono stati risolti.
Quella classe politica, spesso massone, da taluni identificata con il ‘trasformismo’ parlamentare, o il ‘parlamentarismo’, non offriva una attraente immagine di sé. Per giunta la destra tradizionale, alla de Maistre, nell’Italia risorgimentale ed unita praticamente non ebbe voce, pur essendo la voce inascoltata, od inespressa, di tante comunità rurali, ancora guidate dai parroci, lasciando il campo a liberali di diverso orientamento, più laici che cattolici, ai nuovi esponenti socialisti ed a repubblicani di origine mazziniana, non certo rivoluzionari, ma solo relativamente integrati come parte della classe dirigente nazionale.
La risposta degli uomini della monarchia di Vittorio Emanuele III, da Salandra a Sonnino (escluso Giolitti), fu piuttosto deleteria: l’Italia necessitava di guerre, vere e prolungate guerre, per diventare una vera nazione, per amalgamarsi, temprarsi, crescere, per affermarsi territorialmente, per uscire dalla mediocrità, definitivamente. Non erano solo idee e slogan di gruppi guerrafondai, futuristi, sindacalisti rivoluzionari, irredentisti e nazionalisti (che saranno poi il nucleo fondatore del Fascismo nel 1919). Sappiamo come andò, oltre la retorica. Dal fallimento di quella classe politica di notabili ed avvocati, oltreché dallo sforzo immane sociale ed economico, affatto compensato dalla Vittoria del 4 Novembre 1918 – che lasciò una nazione lacerata – nacque il Fascismo mussoliniano, di sicuro non quale semplice risposta alla Rivoluzione russa d’Ottobre e sue riverberazioni oltreconfine… Ciò che avvenne dal 1922 al 1945 è tristemente noto. Alle ansie piccolo-borghesi e popolari di osmosi sociale il fascismo dette risposte parziali, quelle di una modernizzazione autoritaria, travolte dalla rovinosa disfatta nella WWII; nella quale entrammo non obbligati, e dalla infame guerra civile (o come la si voglia denominare) nel 1943-’45. L’Italia ne uscì con le ossa rotta, con una relativamente nuova classe politica che diede prove di realismo e dignità (Einaudi, De Gasperi e altri leader democristiani, Saragat, La Malfa, in parte pure Togliatti e Nenni) negli anni della ricostruzione postbellica, non riuscendo, però, a segnare una netta inversione di tendenza rispetto ai vizi ereditati dalla ‘vecchia politica’, in ispecie nel Meridione, laddove assistenzialismo, clientelismo, tolleranza verso illegalità e criminalità organizzata, gonfiarono il debito pubblico: schiusero le porte all’antipolitica populista, al ‘voto di scambio’ del RdC, promosso dal M5S…
Ricordo (ero ragazzino) di quando Umberto Delle Fave, DC di San Severo (Foggia), negli anni ’60 Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale, fece approvare, per ‘aiutare’ a vincere le elezioni, il cumulo pensione (35 anni di contributi, anche figurativi) integrale e reddito da lavoro (stipendio/salario). Una cuccagna presto abrogata. Durò assai di più (fino agli anni ’90) la normativa sulle pensioni degli statali: sufficienti contributi per 19 anni, 6 mesi, un giorno per gli uomini, 14 anni 6 mesi, un giorno per le donne (spesso insegnanti, che a 33 anni erano già pensionate, per altri 50-60 anni…).
Si sente spesso dire che la classe dirigente è lo specchio del paese. Già Giolitti diceva che ‘se il cliente ha la gobba, il sarto deve tenerne conto’. Siamo un popolo che non guarda e non progetta con un ampio respiro temporale, che guarda alla politica come una partita di calcio, che si innamora di un personaggio e lo dimentica dopo un anno. Oggi nessun politico si imbarca in un progetto a lunga scadenza, perché non sarà lì a raccoglierne i frutti. Si lavora per le prossime elezioni. Tutti danno la colpa a quelli di prima e nessuno ha il coraggio di riconoscere un lavoro ben fatto se non è il proprio…
Ricordiamo, per sommi capi, che cosa è successo negli ultimi decenni. Dalla fine degli anni 70 la spesa pubblica italiana è andata velocemente fuori controllo. Il debito pubblico sempre più insostenibile.
Come ha scritto Fabrizio V. Bonanni Saraceno il 22.3.2023 su ‘L’Opinione delle Libertà’:
“Ci fu una crescita della spesa inerente al welfare, il che portò ad un incremento della spesa pubblica, che in combinazione con la stagnazione del flusso di entrate fiscale, determinarono un connubio fatale, causando la chiusura dei bilanci in un deficit alquanto critico, arrivando a superare il triplo del limite massimo consentito dal Trattato di Maastricht, ossia il 10 per cento. Dal 1975 fino al 1981, la Banca d’Italia garantì il buon esito delle aste di Stato, in quanto si impegnò a stampare moneta, con la quale comprava i titoli di Stato rimasti invenduti, in modo tale da evitare che ci fosse l’aumento del debito pubblico, scaricandolo sulla Lira, al punto da determinarne una elevata svalutazione, considerando che si svalutò del 40 per cento rispetto al dollaro. Sempre nel 1981, il ministro del Tesoro, Andreatta, invitò il governatore della Banca d’Italia, Azeglio Ciampi, a non acquistare più i titoli di Stato italiani rimasti invenduti, applicando da quel momento in poi una politica monetaria indipendente, con l’intento che l’Italia potesse restare all’interno del Sistema Monetario Europeo (Sme), creato nel 1979, il quale sarebbe stato il prodromo della futura unione monetaria (l’Euro). Nel 1982, già si videro le prime terribili conseguenze di questo processo monetario, con l’aumento dell’inflazione e la riduzione del potere di acquisto degli stipendi, dei risparmi e delle pensioni. Inoltre, i tassi di interesse andarono oltre il 25 per cento e lo spread tra i titoli decennali di Stato italiani e quelli della Repubblica Federale tedesca raggiunse il record di 1175 punti di base. Negli anni Ottanta, nonostante ci fosse un periodo di sostenuta crescita economica, il debito pubblico s’innalzò passando dal 60 per cento del Pil nel 1980 al 100 per cento del 1990, con un’inflazione del 10 per cento. Dulcis in fundo, il 5 gennaio del 1990, il governatore della Banca d’Italia Azeglio Ciampi, prese l’inspiegabile decisione di far transitare la lira dalla banda larga alla banda stretta all’interno del Sistema Monetario Europeo (Sme), esponendo in tal modo la Lira ad attacchi speculativi, che il 16 settembre del 1992 (il famoso ‘mercoledì nero’) raggiunsero il loro apice con quello cinico compiuto dal finanziere George Soros, causando una temporanea uscita della Sterlina e della Lira dallo Sme. A questo punto, la Banca d’Italia, per fronteggiare l’ attacco speculativo, svalutò in modo brusco la Lira, che in rapporto al dollaro si svalutò del 35 per cento, facendo ‘bruciare’ le riserve valutarie dello Stato italiano per 50 mila miliardi di Lire, corrispondenti ad oltre 25 miliardi di euro attuali. Ciampi, sempre nel 1992, alzò i tassi di interesse con l’obiettivo di stabilizzare il cambio con la moneta tedesca e impedire che l’Italia uscisse dallo Sme, ma fece ciò commettendo un imperdonabile errore, ossia espresse le sue doglianze per aver aumentato il suddetto tasso d’interesse, innescando automaticamente una sconcertante sfiducia nei mercati che di conseguenza incrementarono la loro fuga, spaventati anche dal fatto che il Governo Amato, il 10 luglio ’92, impose un prelievo forzoso, nonché a sorpresa, del 6 per mille dai conti correnti degli italiani. Al postutto, nel 1994, il debito pubblico toccò il 124 per cento del Pil”… (https://www.opinione.it/economia/2023/03/22/fabrizio-valerio-bonanni-saraceno_debito-pubblico-italiano-pil-banca).
Il nostro Debito Pubblico si avviava ad un progressivo ed esponenziale aumento che lo ha portato a 2762 miliardi di euro, pari a circa il 145 per cento del Pil, nel mese di dicembre del 2022. Peggio di noi solo Giappone, Venezuela e Grecia. Quali sono le cause di questo enorme debito pubblico? Diverse e riguardano l’eccessiva spesa improduttiva delle amministrazioni (centrale, regionali e locali), le quali non sono mai riuscite ad avere bilanci equilibrati. Qualche anno fa Carlo Cottarelli ebbe l’incarico di revisionare la spesa pubblica, la Spending review, e portò al Governo in carica, presieduto da Enrico Letta, l’ipotesi di tagliare 32/35 miliardi. Risultato: il rapporto fu bocciato e gettato nel cestino, perché i privilegi in Italia non si possono tagliare, gestiti da interessi tentacolari infiltrati nelle istituzioni. A causa del crollo del prodotto interno lordo, infatti, tra 2019 e 2020 (anno del Covid) il rapporto tra debito e Pil è balzato dal 134,1% al 155,3%. Stima debito a dicembre 2023: tra 2.810 e 2.862 miliardi. L’Italia prevede per il 2026 un debito pubblico del 140,4%, ma con un forte aumento del debito stesso.
Dunque, per riassumere. Gli anni 80 hanno visto una ricchezza artificiale fondata pesantemente sul debito pubblico. Gli anni 90 portano sia la crisi economica e sia la crisi politica in Italia. Ha scritto Pierdomenico Corte Ruggiero su ‘il sudest’ del 5.12.2022: ‘Governo tecnico, la decadenza della politica’.
“L’anno orribile è il 1992. Il sistema politico italiano è praticamente crollato. Tangentopoli ha cancellato i partiti tradizionali. La confusione è massima. Arriva così nel 1993 il primo governo guidato da un non parlamentare. Carlo Azelio Ciampi. Un tecnico. Durerà poco. Nel 1994 arriva il governo Berlusconi. Il primo.
La politica sembra aver disegnato un nuovo assetto. Nascono nuovi soggetti politici. Il primo governo Berlusconi ha vita breve. Nel 1995 arriva il primo governo totalmente tecnico. Il governo Dini. Fu il primo caso di ‘governo tecnico’ della storia repubblicana, cioè interamente composto di personalità scelte al di fuori della politica attiva. Il provvedimento più importante sarà la riforma del sistema pensionistico. La voce di spesa più corposa. Nel 1996 l’Ulivo di Romano Prodi vince le elezioni. La politica pare tornare a governare il Paese .Poi nel 2008 si scatena una fortissima crisi finanziaria, iniziata con il fallimento della banca Lehman Brothers. Nel 2010 arriva la recessione in Europa. Nel 2011 la situazione precipita e lo spread arriva a 574 punti. L’Italia rischia seriamente la bancarotta. Al governo c’è Silvio Berlusconi, che nel novembre 2011, su pressione dei mercati finanziari, si dimette. Nasce il secondo governo tecnico della storia repubblicana, guidato da Mario Monti. Il governo Monti ha come obiettivo la riduzione della spesa pubblica e del debito pubblico. Obiettivo che raggiunge con pesanti tagli al bilancio dello Stato e con la riforma delle pensioni: la riforma Fornero. Un governo che chiede, anzi impone, molti sacrifici. La situazione era drammaticamente difficile, necessario intervenire. Una cura dura che ha lacerato il tessuto politico. Il governo Monti è il commissariamento della politica. La nostra classe politica è stata giudicata incapace di affrontare una grave crisi economica, anzi è stata indicata come causa della crisi. Per molti Monti era semplicemente l’emissario della Merkel e della Germania. Il governo Monti crea il presupposto per il successo elettorale del M5S prima e della Meloni poi”.
(https://ilsudest.it/politica/2022/12/05/governo-tecnico-la-decadenza-della-politica)
Esso ha altresì creato anche i presupposti per il forte astensionismo elettorale. Che senso ha votare se poi nei momenti ardui a governare vengono chiamati altri? Un politico incapace di prendere decisioni impopolari, ma necessarie, che politico è? Forse un ‘Quaquaraquà’, come diceva Sciascia? Queste le riflessioni che per non pochi nascono dal governo Monti, come prima dai governi tecnici Dini e Ciampi. Più o meno avverrà lo stesso con un altro tecnico, sia pure con chiare velleità politiche, anzi ‘quirinalizie’, Mario Draghi. Anch’egli, come i suoi predecessori ‘figlio della Banca d’Italia’. Quindi, arriva il governo Draghi, il sessantasettesimo della Repubblica, rimasto in carica dal febbraio 2021 all’ottobre 2022. Data la larga maggioranza che lo ha sostenuto, corrispondente alla quasi totalità dell’emiciclo parlamentare, e visto il particolare periodo storico in cui è nato (durante l’epidemia Covid), assume le caratteristiche di ‘governo di unità nazionale’. Elezioni politiche 2022: affluenza definitiva al 63,91%, mai così bassa.
La crisi è della democrazia rappresentativa, indicativa del problema di società che ci sta dinanzi, che chiede alla politica un cambio del suo intero impianto teorico-politico. “La politica ha abbandonato il popolo”, proclamò Fausto Bertinotti. Insomma, se son Washington e Bruxelles, Ue e Nato (con 120 basi militari in Italia), Berlino e Parigi, Wall Street e BCE, a dettare la nostra agenda politica, ad esigere imperiosamente, che senso ha scaldarsi per i nostri partitini ed i loro stinti rappresentanti? Perchè andarli a votare? Vale per aristocratici di sinistra, come Gentiloni o Bettini o Calenda o per i ‘borgatari’ identitari della fiamma, alla Giorgia Meloni. La ‘crisi delle ideologie’, la sfiducia, ne è corollario più che causa.
Ad un pur sommarissimo esame della crisi politica italiana mancano, credo, almeno altre due riflessioni di fondo, una sul legato del Sessantotto, l’altra sulla decadenza della classe dirigente di sinistra. In fondo, la prima con l’aspirazione, o la presunzione, di rappresentare una nuova professionalità alta, pervasa di idealità illuminate, lungimiranti. Di chi ‘cammina con la storia’. Iniziamo da essa.
Come ha ben analizzato Giovanni Cominelli – consigliere comunale a Milano nel 1980 per il Pdup, consigliere regionale dal 1981 al ’90 per il Pci, dal 1985 al 2000 responsabile scuola del Pci-Pds-Ds in Lombardia, membro della Commissione Nazionale Scuola – su La Nuova Padania del 27 febbraio 2022: ‘Sinistra. Oltre alla tranquilla decadenza della classe dirigente, c’è un futuro nella storia del partito dei… lavoratori?’:
“Dei quattro principali partiti del sistema politico italiano, due versano in una crisi profonda. Il M5S si sta decomponendo con la stessa rapidità con cui si era agglutinato. Il PD sta consumando una lunga storia di idee, di persone, di assetti organizzativi, che sono il lascito del vecchio PCI. Un lessico inerzialmente qualunquista e populista, usato furbescamente a turno da chi sta al governo e da chi sta all’opposizione, accusa i partiti altrui di lottare ferocemente tra loro e al loro interno per ‘le poltrone’. Ma si dovrebbe sapere che i partiti si sono costituiti e sono periodicamente votati esattamente per questo: per realizzare delle idee circa il presente e il futuro del Paese. E lo si fa occupando posti di potere e di governo. Ma, per uscire dalla parentesi, è anche evidente che senza una cultura politica profonda e coerente (chiamiamola pure ‘identità’, il mal du siècle) la lotta per i posti degenera in scontri al buio nei corridoi. È ciò che sta avvenendo nel PCI, pardon! nel PD.I lavoratori sono molto di più che una classe sociale, sono il soggetto storico-fattuale di un cambiamento sociale rivoluzionario, accada esso per via democratica o per vie più spicce. Ma cosa deve pensare uno di sinistra, quando sente Salvini parlare a nome dei lavoratori? Che mente per la pelle? Peccato che prenda, come del resto è accaduto a Trump, un sacco di voti proprio dai lavoratori! Pertanto, per rispondere alla domanda di Gaber: ‘cos’è la destra/cos’è la sinistra?’, occorre fare i conti con lo scivolamento di significato che le suddette categorie hanno subito nel brusco scontro delle placche tettoniche della civiltà moderna. Senza dimenticare l’ammonimento di Fernand Braudel, che ‘il nuovo avanza sempre con i vestiti del vecchio’. Ma, anche, che il vecchio a volte si traveste del nuovo”.(Perchè, ad es., citare la ‘dittatura del proletariato’ se il proletariato non esiste più? ndr)
Per Cominelli, “Sinistra” nel corso dei secoli ha significato lotta per l’avanzata sulla scena della storia di nuove forze produttive e di nuovi protagonisti sociali, che ne erano portatori:
“Perciò era lotta contro i ceti sociali che impedivano la comparsa sulla scena. Sinistra sono le forze del capitalismo commerciale e, poi, produttivo/industriale, cioè la borghesia, contro nobili e clero. Sinistra è la borghesia delle libertà, ‘liberale’ per l’appunto. La fondazione di questa sinistra avviene ufficialmente con i Dibattiti del ‘New Modell Army’ di Oliver Cromwell, che si svolgono nella chiesetta di Putney tra il 28 ottobre e l’11 novembre 1647. Re Carlo I ci perse la testa, letteralmente, un paio d’anni dopo. Quella sinistra liberale provoca la ‘Gloriosa Rivoluzione’ inglese nel 1689, poi l’Illuminismo, poi la Rivoluzione americana, poi la Rivoluzione francese, poi Napoleone, poi i moti liberali della prima metà dell’Ottocento. In questa sua marcia sociale e culturale la borghesia ha prodotto il capitalismo industriale e una nuova forza sociale: il proletariato. A partire dal 1848 viene spinta a destra da una nuova sinistra, che rimprovera a quella vecchia di predicare i propri principi, ma di non praticarli. Marx osserverà che la ‘liberté’ dei borghesi consiste per i proletari nella libertà di morire sotto i ponti. Il ‘Manifesto del Partito comunista’ diviene l’atto di fondazione della nuova sinistra del proletariato. Oggi, la sinistra ha perduto l’illusione di poter sostituire il modo di produzione capitalistico con quello socialista, che si è rivelato nelle sue versioni di successo solo un feroce capitalismo di Stato, ed è ripiegata sulla distribuzione della ricchezza, sulle problematiche ecologiche, nell’illusione di penetrare per questa via nella cittadella capitalistica, e sui ‘diritti umani’. Dopo la sinistra borghese, dopo la sinistra proletaria, si apre una terza fase della sinistra? Forse…”.
Secondo Cominelli:
“Sinistra/destra non sono categorie eterne dello spirito. Sono un sottoprodotto particolare di quattrocento anni di storia sociale ed intellettuale dell’Occidente. Il ‘popolo’ di Bettini, senza il nucleo d’acciaio della classe operaia, è solo un magma ribollente ed instabile di interessi particolari, magari fortemente sindacalizzati, la cui rappresentanza politica può essere fornita gratis anche dalla Meloni e da Salvini. Resta l’altra strada: quella dell’invenzione politica e culturale di una nuova sinistra. Strada impegnativa, che si può incominciare a percorrere/costruire, solo se si vedano persone e gruppi sociali protagonisti della civilizzazione, del progresso tecnico-scientifico e intellettuale. Dove stanno oggi le forze di liberazione sociale e di ‘fioritura umana’? Se la politica è populisticamente ridotta a comunicazione, tweet, like, post, a fini di consenso emozionale immediato, allora inevitabilmente si trasforma in lotta aspra e sterile di correnti di partito. A futuro zero”.
(https://www.lanuovapadania.it/politica/sinistra-oltre-alla-tranquilla-decadenza-della-classe-dirigente-partito-dei-lavoratori).
Circa il Sessantotto. Il grande fenomeno socio-culturale avvenuto negli anni a cavallo del 1968, nei quali estesi movimenti di massa socialmente eterogenei (studenti, operai, intellettuali, gruppi etnici minoritari), formatisi spesso per aggregazione spontanea, interessarono molti Stati del mondo con una forte carica di contestazione contro gli apparati di potere dominanti e le loro ideologie. Un movimento sociale e politico che ha profondamente diviso l’opinione pubblica ed i critici, tra chi sostiene che sia stato uno straordinario momento di crescita civile che ha introdotto nella società mutamenti irreversibili (sviluppo dello spirito critico in ogni campo, superamento definitivo di forme di ottuso moralismo, di autoritarismo, di emarginazione della donna e di altri settori della società, del razzismo) e chi, al contrario, ritiene che si sia trattato di un fenomeno di conformismo di massa, un’ondata eversiva che ha messo in pericolo la stabilità della società liberaldemocratica ed i cui effetti dirompenti (dalla stolta lotta al nozionismo nella scuola ed alla meritocrazia) si sentono nell’attualità, al di là del crollo del Muro di Berlino (1989), della fine del Socialismo Reale, della postulata ed irrealizzata ‘Fine della Politica’ di Fukuyama ecc.
La letteratura sul ’68 è quasi sterminata, come moltepici ne furono i prodromi, il background, gli esiti. Citiamoli solamente: Controcultura degli anni 1960. Nel 1964 a Berkeley, l’università californiana i cui aspetti elitari erano uno dei simboli della società statunitense, scoppiò una rivolta. Il contagio fu immediato. Nei campus americani la protesta giovanile mise insieme classi, ceti, gruppi, investì la morale e i rapporti umani. Gli studenti si schierarono contro la guerra del Vietnam, a favore delle battaglie per i diritti civili e filosofie che esprimevano il rifiuto radicale verso uno stile di vita tradizionale. Raggiunse la sua massima espansione nel 1968 nell’Europa occidentale, col suo apice nel Maggio francese. Nelle scuole gli studenti contestavano i metodi dei professori, li sbeffeggiavano, e del sistema educativo, giudicato classista, scarso, obsoleto; nelle Università gli esami individuali. Anzi, le occupavano e di notte ci gozzovigliavano… Nelle fabbriche gli operai rifiutavano l’organizzazione del lavoro. Gli obiettivi comuni erano una radicale trasformazione della società sulla base del principio di uguaglianza, l’opposizione ai poteri costituiti in nome della partecipazione di tutti alle decisioni, l’opposizione al capitalismo ed alla società dei consumi, la liberazione dei popoli dal giogo coloniale, la lotta al militarismo delle Grandi Potenze, l’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, il femminismo radicale. Movimenti giovanili anti-sistema. Beat, hippy, provo. I provo furono un movimento di controcultura sorto nei Paesi Bassi intorno al 1965. La battaglia era incentrata contro il consumismo ed in difesa dell’ambiente (‘Biciclette Bianche’), anticipando l’ambientalismo radicale che diverrà un tema centrale nei movimenti giovanili solo molti anni dopo. Si parlava molto di ‘Rivoluzione”, per lo più a sproposito, panacea per tutti i mali. Venne il terrorismo rosso… Nacque la ‘Nuova Sinistra’. Negli anni 60 sorse, infatti, la New Left, termine coniato dal sociologo americano Charles W. Mills, focalizzata non solo, come la sinistra tradizionale, sulla disuguaglianza sociale e lo sfruttamento del lavoro, ma sulla persona nella società industriale avanzata, sull’alienazione, il disagio, l’autoritarismo, la disumanizzazione indotta dal mercato, dai consumi, dai mezzi di comunicazione di massa che manipolano il pensiero ed inducono falsi bisogni. Si approfondì il pensiero di Althusser, Marcuse, Adorno, Horkheimer, Habermas, Reich, Foucault. Della sinistra storica si valorizzavano orientamenti minoritari emarginati, come l’anarchismo e il trotskismo. Il riferimento ideale all’URSS venne meno; in altri casi ci si allineò, dopo la rottura Cina-URSS, col pensiero di Mao, pochissimo approfondito… Nuovi riferimenti furono la rivoluzione cubana e le lotte terzomondista di Ernesto “Che” Guevara. La morte di “Che” Guevara, da guerrigliero in territorio boliviano, nel 1967, contribuì a fare dell’argentino un simbolo della lotta contro ogni forma di oppressione. Divennero figure importanti anche pensatori e attivisti di Paesi in via di sviluppo, antimperialisti ed anticapitalisti non appoggiati al leninismo classico. Fu anche un inno al ‘casino fine a sé stesso’, le goliardate seriose, i miti costruiti sul nulla; le assurdità del ‘Proibito proibire’, le droghe libere, gli eccessi; il dileggio di ogni gerarchia, competenza ed autorità… di quei capi officina che poi sindacalisti estremisti e BR gambizzeranno negli anni 70…
(Cfr. Massimo Bontempelli, Il sessantotto. Un anno ancora da scoprire, Cagliari, CUEC, 2008; Valerio Magrelli, Il Sessantotto realizzato da Mediaset, Torino, Einaudi, 2011; https://it.wikipedia.org/wiki/Sessantotto).
Pure se, da noi, il Pci furbescamente cercò di far proprio lo spirito e taluni obiettivi del ’68 e del Movimento Studentesco, ampliando la sua presenza e controllo nella società e nelle istituzioni in senso gramsciano. Un aspetto fondamentale del ’68 fu la negazione dell’autorità, patriarcale, paterna e politica. Fu esso anche un carnevale, un happening prolungato, prepotenze ed intimidazioni tollerate, utopie infantili. L’anticipazione del demenziale ‘uno vale uno’. La crisi della politica – e del generalizzato, ancorché formale rispetto per l’autorità – se non inizia allora, certamente si approfondisce a partire da quelle istanze, da quel diffuso sentire, che negli ultimi decenni non sono tramontate, si sono anzi ingigantite, finendo nel calderone dei ‘diritti infiniti’ (talora bizzarri e soprattutto teorici), nelle libertà (ed intolleranze) del ‘Pensiero Unico’, Liberal e Politically Correct, nella Woke & Cancel Culture, nella Gender Fluidity e LGBTQ, nell’ecologismo dogmatico, persino nel ridicolo linguaggio inclusivo.
Non vale solo per l’Italia, lo sappiamo…
(Montevideo, 9.VIII.2023)