Il 2 settembre prossimo sarà il cinquantesimo anniversario della morte di J.R.R. Tolkien (1892-1973), colui che, con l’epica del Signore degli anelli, ha reinventato la classicità adattandola al Ventesimo secolo e innovando efficacemente i miti e le leggende che la modernità sembrava aver cancellato dall’orizzonte umano. Il mensile “Studi cattolici” celebra questa ricorrenza con uno speciale Quaderno Tolkien allegato al numero 749/70, che si può richiedere alle Edizioni Ares, curato da Marina Lenti -che ha ricostruito attentamente le intricate vicende legate alla nuova traduzione firmata da Ottavio Fatica- a cui hanno collaborato lettori, studiosi e appassionati dell’opera tolkieniana come Paolo Gulisano e Giuseppe Cozzolino, che si sono occupati, rispettivamente, della vita di Tolkien e della trasposizione cinematografica del Signore degli Anelli realizzata da Peter Jackson.
Nato in Sudafrica, ma cresciuto in Inghilterra, il piccolo John Ronald Reuel Tolkien rimane precocemente orfano di padre, e all’età di sedici anni perde anche la madre, convertitasi in età adulta al Cattolicesimo, fede che risulterà essere l’eredità più solida e preziosa lasciata ai figli. Già, perché, sebbene nella Terra di Mezzo inventata dallo scrittore non vi siano riferimenti espliciti al Cristianesimo, tutte le avventure degli Hobbit sono improntate ai valori cattolici; il viaggio di Frodo -come Tolkien scrive in una risposta alla recensione del Ritorno del Re scritta da W.H.Auden- è una missione “per liberare l’umanità da una malefica tirannia”, aggiungendo che “nel Signore degli Anelli il conflitto fondamentale non riguarda la libertà, che tuttavia è compresa. Riguarda Dio, e il diritto che Lui solo ha di ricevere onori divini”, per concludere con l’affermazione che “il mio non è un mondo immaginario, ma un momento storico immaginario su una Terra-di-Mezzo che è la terra dove noi viviamo”. E tanto basti per calare un pietoso sipario sulla rielaborazione politicamente corretta messa in scena dalla -peraltro noiosa- serie tv Gli anelli del potere, prodotta da Amazon e sonoramente bocciata dal pubblico dopo essere stata meritatamente stroncata dalla critica.
Come tutti sanno, prima di essere un film o una serie televisiva, Il Signore degli Anelli è un libro epico diviso in tre volumi, La Compagnia dell’Anello, Le due torri e Il ritorno del Re, pubblicati tra il 1954 e il 1955, che riprendono il mondo e i personaggi delineati nel romanzo Lo Hobbit, uscito nel 1937. Il successo non fu immediato, ma quando scoppiò divenne travolgente, accendendo l’interesse per il genere fantasy che dilagò nel secondo dopoguerra, con il fiorire di temi, libri e pellicole ispirate più o meno direttamente all’epica tolkeniana: la riscoperta della fiabe, il dilagare di gnomi e fate, l’invenzione di giochi di ruolo come Dungeons and Dragons, fino agli interminabili cicli letterari inaugurati dai romanzi di Shannara, e i mille altri che sono tutti in qualche modo derivati degli hobbit. I piccoli e pacifici esseri immaginati dal professore oxoniano furono, inoltre, un cult della letteratura hippie e, come tutti sanno, diventarono negli anni Settanta anche i numi ispiratori dell’estrema destra nostrana, che tentò inutilmente di liberarsi dalla muffa delle vecchie sezioni organizzando, come fossero delle “feste a lungo attese”, i famosi Campi hobbit, che segnarono il definitivo distacco dagli altri campi, quelli paramilitari.
J.R.R.Tolkien è un classico, e i classici non si possono aggiornare, altrimenti non sarebbero più tali; un classico è qualcosa che rimane sempre valido, senza bisogno di aggiustamenti, ritocchi o ammodernamenti, come ha dimostrato il regista Peter Jackson con la sua splendida trasposizione cinematografica, che ha ravvivato l’interesse per le imprese della Compagnia dell’Anello e per l’universo della Terra di mezzo. I tre bellissimi film, campioni d’incasso in tutto il mondo, hanno permesso a delle generazioni di non-lettori di scoprire la ricchezza feconda del patrimonio di miti e leggende che il professore di Oxford aveva rielaborato dal folklore scandinavo e dalla letteratura anglosassone. Appassionato lettore di saghe nordiche sin da bambino, Tolkien le trasformerà nell’oggetto della sua professione quando salirà in cattedra all’Università di Oxford. Professore tanto serio e preciso nello studio quanto originale e anticonvenzionale nel metodo di insegnamento, l’inventore degli hobbit riusciva ad appassionare gli studenti valorizzando il contenuto dei testi affrontati, anche mettendosi a declamare i versi del Beowulf come un menestrello medievale, un po’ come il famoso prof. Keating impersonato da Robin Williams nell’Attimo fuggente. Una materia noiosa e arida come la filologia, che poteva addormentare anche i più volenterosi studiosi di lingue antiche, vittime di misteriose “rotazioni consonantiche”, dallo studio faticoso di lingue morte si trasformava in un’epica travolgente, popolata di coraggiosi cavalieri che sconfiggevano draghi sputafuoco, dove gentili donzelle aspettavano di essere liberate dai loro volenterosi corteggiatori. Lo studio della letteratura antica e medievale non era più un mero esercizio di anatomo-patologia effettuato su testi morti ma era diventato un’appassionata ricerca di tutto quello che c’è di vivo, perché eterno, nei testi della tradizione.
Nel suo Discordo di commiato all’Università di Oxford, Tolkien disse con molta chiarezza quali erano i suoi principi, applicati tanto dal professore quanto dallo scrittore: “L’oggetto primario delle grandi Scuole non è la cultura e il loro utilizzo accademico non è limitato all’educazione. Le loro radici stanno nel desiderio di conoscenza, e la loro vita è mantenuta da coloro che hanno una passione o una curiosità senza riferimento a scopi personali. Se questa passione e questa curiosità individuali vengono meno, la loro tradizione diviene sclerotica.”
Ecco perché, nonostante tutti gli sforzi profusi, le manipolazioni woke e gli adattamenti politicamente corretti dei grandi classici non avranno mai successo. (da Il Giornale)