“Da questo luogo e da questo giorno comincia un’era nuova nella storia del mondo”. Tale il lapidario, profetico avviso di Wolfgang Goethe allorché, all’indomani della battaglia di Valmy del 20 settembre del 1792, egli si trovava soldato dell’esercito prussiano in rotta, tra la fame, il freddo e la dissenteria.
Quando cominciano, nel mondo, le ere nuove? È un vecchio problema, e non solo di periodizzazione. Certo, le “ere” storiche sono una convenzione; e ancor più lo sono gli avvenimenti che noi prendiamo volta per volta a simbolo del chiudersi o dell’aprirsi di un’epoca. La presa della Bastiglia del 1789 e la battaglia di Valmy del 1792 continuano tuttavia ad occupare, nel nostro immaginario, un ruolo analogo alla conquista di Granada e alla scoperta del Nuovo Mondo del 1492. Sappiamo bene che si tratta di simboli e di convenzioni: tuttavia, non è solo per abitudine scolastica se restiamo intimamente fedeli all’idea schematica che l’età moderna sia sorta nel 1492 e tramontata, appunto, nel 1789-92 per dar luogo all’età contemporanea.
Quelle due età sono entrambe tuttavia da ascrivere al più ampio e complesso momento della storia di un “Occidente” che rappresenta l’espansione dell’Europa fuori di se stessa, l’imposizione della sua supremazia e l’avviarsi di un’economia-mondo: di quel processo che ormai siamo abituati a definire “globalizzazione” o “mondializzazione”. Tale lungo momento, durato all’incirca mezzo millennio, è forse correttamente o comunque plausibilmente definibile appunto nel suo complesso come “Modernità”: per contro, il da troppi celebrato “Postmoderno” permane in realtà nell’indefinita e indefinibile bruma dei concetti ardui a comprendersi. E si apre un problema destinato a ricevere complesse, contraddittorie risposte: “Occidente”, “egemonia dell’Occidente sul mondo” e “Modernità” sono dimensioni considerabili come sinonimiche?
Al fine di tentare una risposta adeguata concentriamoci su quanto è accaduto e sta accadendo fuori d’Europa. Nella seconda parte del XX secolo presero ad affermarsi, in parallelo con l’avanzare dei processi di “decolonizzazione” politica e di “neocolonializzazione” finanziaria, diplomatica e tecnologica, varie forme di rivendicata o di dissimulata supremazia di movimenti neocristiani o postcristiani successori del colonialismo storico nei confronti d’indigeni “pagani” o “infedeli” o neoconvertiti o rimasti sinceramente e più o meno solidamente cristiani. Ciò era destinato a non rimanere privo di risposte da parte né di alcune componenti del panorama del fondamentalismo religioso africano, né di gruppi religioso-politici in tutti gli altri continenti.
I crimini del colonialismo in tempi sia lontani sia prossimi sono successivamente tornati o stanno tornando a galla: e insieme con essi la realtà che sia stato in buona parte grazie a quei crimini, ben noti almeno alle nostre classi dirigenti, che il mondo occidentale – dopo la “falsa partenza” della rapina spagnola e portoghese dell’oro e dell’argento americani in pieno Cinquecento, che provocarono la “rivoluzione dei prezzi”, cioè l’inflazione galoppante e l’impoverimento generalizzato – ha potuto permettersi, giovandosi del controllo da parte delle lobbies finanziarie e imprenditoriali statunitensi ed europee nonché sovente con la complicità degli stessi governi locali, di gestire la sistematica spoliazione degli interi continenti africano e latinoamericano; da qui, fra l’altro, l’esodo massiccio di migranti indigeni[1] che fuggono da quelle immense aree depresse il suolo e il sottosuolo delle quali rigurgita peraltro di ricchezze drenate. Dalla Bolivia all’Africa occidentale, la gente più miserabile del mondo lascia i suoi paesi dal suolo e dal sottosuolo ricchissimi, al pieno possesso delle cui risorse avrebbero pur diritto secondo la Carta delle Nazioni Unite, per cercare asilo e lavoro in paesi divenuti opulenti grazie alla secolare rapina di quegli stessi disgraziati popoli. E la rapina continua: e non ci sono conferenze internazionali, né denunzie alle Nazioni Unite, né appelli all’opinione pubblica internazionale, né patti intergovernativi bilaterali, né progetti di sviluppo che tengano. Un’obiezione frequente a tutto ciò è che quelle società “non hanno avuto il tempo”, o comunque “non sono state in grado” di conseguire “un adeguato livello di maturità sociopolitica e socioculturale” e in ogni modo la padronanza del know-how necessari a gestire la loro sovranità. Ma appunto il provvedere a far sì che la raggiungessero è stato, per secoli, l’alibi corrente per mantenere l’occupazione: e il “tempo necessario” ci sarebbe ampiamente stato. Anzi, in alcuni casi vi sarebbe tout court: e gli stessi regimi coloniali hanno avuto tutto l’interesse a costruire nei paesi assoggettati un’oligarchia tecnicamente matura e sufficientemente all’altezza delle funzioni di governo. Che poi abbia fatto di tutto per renderla docile e magari corrotta, è un altro discorso. E che, costretti ad andarsene, abbiano in modo più o meno abile e con la complicità di ambienti del paese alla vigilia della liberazione organizzato quello che eufemisticamente si usa definire una “transizione postcolonialistica”, vale a dire un’almeno parziale “ricolonizzazione” de facto, un altro discorso ancora. La violenza, la frode, la corruzione sono stati gli ingredienti strutturali del colonialismo; e il colonialismo una delle colonne portanti della vita, della potenza, della prosperità dell’Occidente; e l’abolizione dello schiavismo, da un certo momento in poi della nostra storia sette-ottocentesca, è stata del tutto funzionale e compatibile con la dinamica dello sviluppo delle nostre classi dirigenti.
Questo atroce non-senso, questo scandalo senza nome, i signori di Wall Street e della World Trade Organization nonché gli elitari frequentatori dei meetings di Davos lo conoscono perfettamente. Esso ha provocato e continua a provocare, ha prodotto e continua a produrre guasti immani, comprese le ricorrenti epidemie di terrorismo, le carestie[2], le guerre e la tragedia senza fine dei boat people, quelli che noi chiamiamo – con un’espressione da disinvolto turismo balneare – “gommoni”.
La casistica dei misfatti coloniali riempirebbe intere grandi biblioteche e quel poco che se ne sa o che se ne potrebbe sapere anche solo informandosene senza sforzo grida da solo vendetta al cospetto di Dio. Ma non parlano mai o quasi mai seriamente di queste cose né la nostra educata e schizzinosa società civile, né i media asserviti alle lobbies alle quali rispondono paese per paese i governi e i partiti che ospitano nel loro stesso seno o tra i loro finanziatori membri dei “comitati d’affari” lobbistici, né la società civile e la scuola che ne sono degne e magari inconsapevoli complici con il loro conformismo uso a distribuire patenti di democrazia e di dittatura a comando e a sbattere mostri in prima pagina in modo da coprire mostri ancor peggiori che si nascondono dietro di essa. Non si parla mai di queste cose. I delitti continui e seriali di quella grande Shoah dinanzi alla quale il pur orrendo martirio del popolo ebraico fra ’33 e ’45 – cominciato invero molto prima, e non ancora terminato nei suoi esiti e nei suoi epigoni – diventa solo una “piccola Shoah”. Basti pensare – ma citiamo qui solo qualche caso “classico”, di quelli da innocua vetrina – al buon re Leopoldo II del Belgio, cattolico e liberale, e a quelle miniere congolesi che dal 1885 furono gestite non dal suo piccolo stato, bensì direttamente da lui tramite i compiacenti uffici del “libero sodalizio” Association Internationale Africaine. Il territorio “libero e indipendente” controllato da re Leopoldo era grande quasi quanto l’attuale Repubblica Democratica del Congo. Fu un disastro di proporzioni immani: sfruttamento illimitato anche del lavoro obbligatorio dei minorenni, massacri di intere regioni (i miliziani della Force Publique tagliavano una mano a ciascuna delle loro vittime “sorprese in ozio” o mentre tentavano la fuga, e la presentavano all’incasso: venivano pagati un tot per ogni mano) e perfino un’epidemia influenzale che tra 1889 e 1890 infuriò anche nel continente europeo.
I disagi dell’immenso continente africano sono molti e complessi, nonché differenti da zona a zona. Se l’area meridionale ha trovato in qualche modo un suo equilibrio dopo il coraggioso esperimento di governo di Nelson Mandela – paladino peraltro, come a suo tempo sia pur con differenti accenti il libico Gheddafi stesso, di un’unità continentale panafricana che appare tuttavia lontana dal realizzarsi[3] – altre regioni annegano attualmente nelle fame e nel disordine.
Ma ora che la tragedia del boat people che ormai da anni sta riducendo i fondali del nostro Mediterraneo a un immenso cimitero sul quale stanno speculando miriadi di criminali mercanti di carne umana e di politicastri mercanti d’odio ha raggiunto livelli intollerabili, dev’esser chiaro che la principale ragione dell’esodo dal continente africano risiede nelle conseguenze dello sfruttamento sistematico e indiscriminato delle sue risorse del suolo e del sottosuolo drenato dalle imprese legate alle lobbies soprattutto statunitensi, europee, ora anche russe e cinesi e i proventi delle quali vengono riversati nei forzieri di quei paesi estranei all’Africa, beninteso con l’assenso più o meno organizzato dei governi e delle oligarchie locali ma senza alcun beneficio né diretto né indiretto per le popolazioni, per il loro tenore di vita e per il loro sviluppo. Unico rimedio per garantire un minimo di sopravvivenza: l’esodo in massa delle forze migliori.
Quest’intollerabile assurdità è da anni ben conosciuta dai molti “organi competenti” (sic…) delle Nazioni Unite: ma prendere al riguardo risoluzioni efficaci a maggioranza nell’Assemblea ONU è improponibile. Dovrebbe intervenire i Consiglio di Sicurezza: ma il fatto è che esso è composto dalle cinque superpotenze mondiali o ritenute tali (i “Quattro Grandi” vincitori – ancora!… – della seconda guerra mondiale, più la Cina), ad almeno una delle quali afferisce ciascun paese sfruttatore in qualunque modo interessato al mantenimento dello statu quo africano. Ciascuno dei membri del Consiglio di Sicurezza è detentore del “diritto di veto”” nei confronti di qualunque delibera dell’Assemblea. Basta un solo “no!” da parte di uno di loro, e tutto si ferma. Stanti così le cose, è ridicolo che l’opinione pubblica mondiale venga di quando in quando scossa dai media solo allorché alla ribalta del continente nero si affaccia con maggior evidenza la diplomazia di Mosca o quella di Pechino.
Cyril Bensimon (Un continent en quête de nouveaux horizons, in Bilan du Monde 2023,edito annualmente dal quotidiano francese “Le Monde” pp. 142-43), conclude il suo articolo peraltro denso di dati con la riduttiva considerazione che, a causa dell’indecisione degli stati africani nella scelta della grande potenza mondiale alla quale appoggiarsi, la Francia sta perdendo influenza nel continente. Da un punto di vista obiettivo, ciò è poco rilevante (e resta comunque il fatto che la Francia siede nel Consiglio di Sicurezza).
È invece significativo che già nel giugno del 2022 il presidente senegalese Macky Sall abbia incontrato a Soci sul Mar Nero Vladimir Putin, confidando proprio a lui il disagio del suo paese obbligato a subire le conseguenze almeno economiche della guerra russo-occidentale e a osservare la disciplina sanzionatoria unilateralmente imposta dagli USA contro la Russia. Ma del peso di quelle sanzioni su tutti i paesi del mondo (valga l’esempio dell’Egitto, dove le conseguenze del conflitto russo-occidentale hanno innalzato il debito pubblico fino al 90% del PIL: cfr. Bilan du Monde 2023, p. 172), mister Biden & Co. mostrano di non preoccuparsi affatto.
[1] Nel senso etimologico di questo termine ambiguo ma divertente – letteralmente, all’origine, “nativo delle Indie”, naturalmente occidentali, poi generalizzato –; sarebbe più appropriato sostituire in genere l’aggettivo “indigeno” con quello “endemico”, se ciò non creasse bizzarre analogie con l’uso che ormai se ne fa in epidemiologia. In questo caso, l’uso del termine inglese “internazionalizzato” native è ordinariamente opportuno.
[2] Prima della sistematica conquista da parte dell’Europa, il continente africano godeva nel suo complesso della sovranità alimentare.
[3] Ed è da notare che l’Unione Sudafricana si è avvicinata alla “Conferenza di Shangai” egemonizzata dalla Cina.
Analisi molto bella,basata sui fatti. C’è poco da aggiungere. Si addensano tempi bui,per l’Italia in particolare sul fronte migranti. Gli naccordi con la Tunisia servono a poco.
Non concordo con la solita litania catto-progressista, in questo caso fatta propria da Cardini: ‘la principale ragione dell’esodo dal continente africano risiede nelle conseguenze dello sfruttamento sistematico e indiscriminato delle sue risorse del suolo e del sottosuolo drenato dalle imprese legate alle lobbies soprattutto statunitensi, europee, ora anche russe
e cinesi’. Il problema non è economico, né sociologico, ma culturale. L’Africa nei confronti dell’Europa è l’equivalente di Haiti rispetto agli USA. L’africano è rimasto per secoli circa 3000 anni indietro rispetto alle civiltà mesopotamiche. Pensare che adesso saprebbe gestire in termini di efficienza le risorse naturali del sottosuolo africano è solo un miraggio, un pio sogno di anime belle o una delle tante ipocrisie cattoliche. Cattolici (Ordini cattolici) che indignati condannano la schiavitù (a ragione), ma che fino al 1889 in Brasile possedevano migliaia e migliaia di schiavi… Il colonialismo è sempre esistito nella storia del mondo. Il problema è che esso è venuto meno nel secondo dopoguerra su basi ideologiche, senza che ci fosse un barlume di classe dirigente locale moderna, non meramente tribale…
La sovranità alimentare di cui forse godeva l’Africa prima della colonizzazione si riferisce ad una demografia neppur lontanamente comparabile alla odierna. 10-12 volte meno. Ed era una sovranità quasi sempre di mera sussistenza. L’agricoltura vera l’hanno introdotta gli europei.
Con tutto il rispetto per la cultura e l’intelligenza di Franco Cardini, che conosco da più di mezzo secolo, “uditore” nel 1971 del suo seminario sulla Cavalleria Medievale, vorrei fare presente qualche considerazione.
La guerra è stata e temo ancora sia la condizione naturale dell’uomo sulla terra. Noi occidentali non siamo stati più “cattivi” né gli africani più “buoni”. Noi soltanto siamo stati più abili e intelligenti nell’elaborare una superiorità tecnologica e militare: le “navi e cannoni”, cui aggiungerei la forza dell’ordine chiuso. Abbiamo, è vero, sfruttato, e in parte continuiamo a sfruttare le risorse del cosiddetto terzo mondo; ma lo facciamo perché solo con noi sono divenute ricchezze. Gli arabi, se non ci fossero stati Barsanti e Matteucci, il petrolio l’avrebbero utilizzato solo per accendere le lampade.
Prima che noi colonizzassimo l’Africa, è stata l’Africa, o almeno la parte dell’Africa egemonizzata dalla religione islamica, a cercare di colonizzare noi, invadendo la Spagna, dominando la Sicilia e parte del Sud Italia. La minaccia delle scorrerie islamiche nel nostro Mezzogiorno è proseguita sino al Settecento e anzi ha costituito uno dei motivi del mancato decollo economico di questa parte d’Italia. Io rispetto l’Islam, a diciott’anni leggevo Le règne de la quantité et les signes des temps di un grande convertito come René Guénon, ma la verità è questa.
Lo schiavismo è stato un crimine contro l’umanità, ma i primi a commetterlo sono state le tribù negre che si facevano la guerra per prendere schiavi e poi rivenderli a mercanti in genere arabi. E quanti italiani e italiane sono stati fatti schiavi dalle scorrerie dei pirati saraceni?
Re Leopoldo è stato senz’altro un grande criminale, ma ci sono stati anche colonialismi che hanno aiutato a crescere economicamente e culturalmente i popoli colonizzati. Noi italiani in Libia abbiamo compiuto sforzi enormi per colonizzare il territorio e lo stesso può dirsi per quello che abbiamo fatto in Africa Orientale.
D’altra parte, lo sfruttamento delle ricchezze del suolo e del sottosuolo dei paesi colonizzati ha prodotto un miglioramento delle condizioni di vita non solo per ristrette élites, ma anche per il proletariato delle nazioni civilizzatrici. Lo capì anche Marx e lo riconobbe la stessa Seconda Internazionale. Anch’io posso emotivamente simpatizzare per i pellerossa, ma lo sfruttamento dei loro territori, passati da bandite per la caccia al cinghiale a terreni coltivabili, ha consentito di sfamare il surplus demografico del mondo e in particolare gli immigrati irlandesi ridotti alla fame dall’epidemia che colpiva le patate, loro principale fonte di sopravvivenza.
Se, a oltre mezzo secolo dalla fine del processo di decolonizzazione, i paesi decolonizzati non sono in grado di gestire le loro risorse e sono in mano a classi dirigenti cleptocratiche, il problema non è nostro, ma loro. Smettiamo, una volta per tutte, di crocifiggerci e cerchiamo semmai di contrastare in Africa il subdolo neocolonialismo cinese.
Finalmente qualcuno che divincolandosi da orpelli riempitivi, descrive realtà storiche lungamente manipolate per fini falsamente libertari.
Concordo..
Il Kaiser Guglielmo II definiva Re Leopoldo dei Belgi ‘intrinsecamente malvagio’…
Scusate: Cardini analizza fatti e cioè che l’Africa è in mano in diverse aree alla Cina ,Russia e Usa,è un dato di fatto o no? Ciò non esime nella sua analisi a escludere responsabilità gravi dei governi locali come quello tunisino ad es nel fenomeno migratorio. Governi che prendono soldi ma che fanno poco o nulla per le loro popolazioni e quindi è ovvio che emigrano
Gli africani emigrano per raccogliere briciole di Welfare residuale e per entrare in questo tollerante Luna Park europeo occidentale dove quasi tutto è permesso, tollerato, giustificato… Emigrerebbero comunque perchè non hanno mentalità imprenditoriale sviluppata…
…né disciplina sociale.
Concordo pienamente con Guidobono ed Enrico. L’Africa non è mai stata l’Eden di pace e prosperità bruscamente sconvolto dai colonizzatori europei guerrafondai. Certo, si può discutere ed operare dei distinguo tra i vari colonialismi ma il mondo, tutto, risponde ad una volontà di potenza, come ben scriveva Nietzsche. Dunque, o sei forte o non lo sei, peggio ancora se decidi di non esserlo in ottemperanza ad ottusi sentimentalismi che non esistono nel mondo, Africa compresa. A titolo di esempio, dalla fine dell’apartheid, in Sudafrica non c’è stata alcuna pacificazione e da anni, a subire sono i bianchi, boeri in prevalenza. Si parla di cifre da genocidio, nel silenzio generale. Un paese con un tasso di criminalità tra i più alti al mondo, con una percentuale di stupri impressionante, manco a dirlo sono le bianche a farne le spese nella maggior parte dei casi. E tutto questo anche durante gli anni della presidenza Mandela, premio Nobel per la pace. Pertanto, o ci svegliamo dal torpore o saremo noi ad essere colonizzati, nella maniera più subdola tra l’altro, senza una conquista manu militari. Chiudere i porti, blocco navale e rispetto dei confini, basta perdersi in analisi patetiche sulle responsabilità del passato. Non dobbiamo certo pagare noi o tutti gli europei per le malefatte di Re Leopoldo.
Addendum. Per gli stessi motivi dovremmo forse smettere di guardare ad Alessandro Magno come primo grande conquistatore e colonizzatore europeo ? Dovremmo provare pietà per tutte le tribù da lui sottomesse ?
Forse non sono stato abbastanza chiaro,il mio commento di cui sopra si riferisce all’intervento di Enrico che condivido in todo.
Il resto tante belle parole,ma chi scende in piazza !? Altrimenti diventano discorsi rimasticati in continuazione e quindi patetici..
Proprio questo è il problema. La destra non scende più in piazza. Del resto non convince gli astenuti a votare. E neppure fa ora incetta degli italoforzuti orfani… Giorgia è sempre al 29 e qualcosa %. Del resto non propone una politica di destra. Il semipresidenzialismo non scalda proprio nessuno… Questo governo al massimo arriva all’autunno…