L’Italia è famosa per i successi delle sue tavole imbandite ma non per le contese ai tavoli internazionali. E così accade alla Conferenza di Pace del 1919. Pur essendo tra i vincitori della guerra ci rifiutano l’annessione dei territori promessi. Sboccia il mito di una vittoria mutilata. E: non ci vogliono dare Fiume? D’Annunzio pensaci tu!
Sette ufficiali dei Granatieri di Sardegna hanno giurato: “Fiume o morte!” e rivolgono l’appello al Vate, febbricitante, che acconsente. Avverte solo Mussolini: “il dado è tratto. Domani prenderò Fiume con le armi. Il Dio d’Italia ci assista.” La colonna, formata da ventisei camion e trecento soldati, parte dal cimitero di Ronchi. Brutto presagio.
Alla barra di confine il Generale Pittaluga lo vuole fermare, il Poeta offre il suo petto coperto di medaglie e lo invita a sparare. Lui è l’eroe della beffa di Buccari, del volo su Vienna! E poco dopo entra a Fiume al suono delle campane, acclamato dagli abitanti, la macchina coperta di fiori. È il 12 settembre del 1919. Assume la Reggenza e diventa il Comandante. Inizia una grande avventura: lui è il regista, tutti gli altri comparse che si adeguano al suo copione, al suo spartito.
Nasce anche una liturgia che sarà plagiata dal fascismo: gli alalà, i me ne frego, a noi! e i teschi, fregi funerei degli arditi. Viene stesa la Carta del Carnaro, praticamente il Vangelo di quella comunità e di quell’esperienza. Contiene canoni libertari e avveniristici. Testimonia l’avvento dell’immaginazione al potere, come avrebbero scritto sui murales decine di anni dopo. Fiume diventa la città dell’amore, un amore sfrenato e senza vincoli.
Alcuni giovani ufficiali fondano un’organizzazione di spiriti liberi che condanna la vita borghese. La chiamano Yoga. I suoi simboli sono la svastica e la rosa a cinque petali. Propongono l’abolizione del denaro e la pratica del libero amore.
E c’è Keller, il pilota della squadriglia di Baracca, estroverso e geniale. Ha volato su Montecitorio e gettato un pitale, un orinatoio, in dispregio alla politica che stanno facendo. Un gesto triviale e simbolico. E rose rosse al popolo, alla Regina, quale pegno d’amore. Keller pratica il nudismo e riposa sugli alberi. Un giorno ha assicurato alla carlinga un asinello e lo ha portato in dono al Comandante.
Gli approvvigionamenti? Saccheggi, razzie e donazioni forzate. Il Capitano Giulietti sequestra e dirotta navi. Il “Persia” carico di armi destinate all’armata bianca del barone Wrangel che combatteva l’Armata Rossa di Trotsky. Il “Cogne” carico di valori monetari e il vapore “Barone Esterhazi” con tonnellate di grano. E per assurdo riescono a farsi pagare dallo Stato il grano in eccesso che già era suo. I pirati sono gli “Uscocchi” di D’Annunzio.
Giuseppe Giulietti, capo della Federazione Italiana Lavoratori del Mare, cura il rientro dall’Inghilterra dell’anarchico Malatesta (un suo comizio a Genova raccoglie una folla oceanica) e propone a D’Annunzio di estendere l’insurrezione. Consultano Serrati, capo socialista, che non dà il suo assenso, teme una dittatura militare. Su lui il peso di un giudizio caustico di Lenin: “un miscuglio di straccioneria piccolo-borghese e di furfanteria di politicante.” Mussolini, saputo del mancato accordo, rivela il complotto sul suo giornale con il titolo: “L’operetta nell’epopea.”
I socialisti e i sindacati hanno votato se fare la rivoluzione e l’esito è stato negativo. Malatesta accusa: “il proletariato vi bollerà come sciacalli infami!” L’epitaffio di Tasca: “Il movimento operaio è un cadavere che i becchini fascisti spazzeranno.” Infatti, due anni dopo Mussolini si sarebbe preso tutto. Avrebbe scippato quella rivoluzione così tanto vagheggiata dagli altri.
Intanto a Fiume la festa continua e D’Annunzio trova il tempo di litigare con gli editori Treves e Mondadori, e con Benito per una presunta cresta fatta su una sottoscrizione de “il popolo d’italia”. Approda Marconi a bordo del suo panfilo Elettra, Toscanini dirige un gran concerto e sono tanti i personaggi famosi che accorrono. Tutti a fare la marchetta pro D’Annunzio e la città liberata.
Ma sta per calare il sipario. Il trattato di Rapallo istituisce lo stato libero di Fiume che D’Annunzio non accetta. Mussolini è latitante e ambiguo, rimane sordo alle sue invocazioni di aiuto. Medita già il suo progetto.
Il Presidente del Consiglio Giolitti dà l’ordine increscioso al generale Caviglia di sloggiare quell’importuno inquilino. Il 26 dicembre la corazzata Andrea Doria cannoneggia il palazzo del governo, con granate da 152. Qualche calcinaccio ferisce al capo il Comandante. Il delitto è consumato e diventerà il Natale di sangue. “I morituri ti salutano,” il poeta si appropria del saluto dei gladiatori a Cesare.
Per evitare il bombardamento della città con il coinvolgimento dei civili il Comandante accetta la resa. Prima di partire si reca al cimitero di Cosala dove sono raccolte le salme dei soldati e dei legionari morti negli scontri. Gli storici si giocano le bare: trentatré per uno, ventisette per l’altro, cinquanta per l’altro ancora. Alalà funebre e il commiato tra le tombe. Diciotto gennaio 1921, poco più di un anno di follia, di libertà. Un incantesimo stuprato e ucciso. L’addio: “Viva l’amore. Alalà!” L’evento provoca solo qualche scaramuccia a Trieste subito domata e spenta. Il legionario Comisso sancisce la fine dell’avventura sferrando con rabbia un calcio alla mitragliatrice. Nel 1924 esce “il porto dell’amore” nel quale racconta la vicenda fiumana. Montale così lo recensisce: “Libretto carnale e febbrile che avvampa.”
D’Annunzio si ritira nella villa Cargnacco sul lago di Garda che, ristrutturata a spese del governo, sarà il Vittoriale. Lui parlava di donazione all’Italia, il Vittoriale degli italiani, ma il decreto operante solo al suo decesso. Aveva inventato anche la nuda proprietà!
Malgrado la sconfitta, al Vittoriale è un viavai di politici e militari, un pellegrinaggio continuo. Lenin ha riconosciuto D’Annunzio come l’unico rivoluzionario in Italia e sperato che Fiume fosse l’inizio di una rivoluzione. Perfino Gramsci si reca da lui ma non viene ricevuto. A raffreddare i suoi bollori guerrieri la famosa caduta del 13 agosto da una finestra della sua villa, da lui definita il volo dell’arcangelo. La colpa? Forse una spinta, per gelosia, di una delle femmine del suo harem. Di suo l’aggiunta di un pizzico di mistero per aver detto: “L’Italia mi ha spinto dalla Rupe Tarpea.” A chi alludeva? Chi lo aveva estromesso dai giochi? (Non c’era il R.I.S a indagare!!)
Il ventotto ottobre dello stesso anno avviene la marcia su Roma. Qualche tiepido invito a partecipare da Mussolini e lui, sdegnoso, aveva tergiversato. Affermava ai suoi che sarebbe stata una farsa, un insuccesso. Credeva nell’avvento di un nuovo governo che lo avrebbe convocato. In effetti un mio professore, all’epoca ufficiale, raccontava: “Se ci avessero dato l’ordine con due schioppettate li avremmo dispersi.” Rammaricato. Ed ecco l’avallo di Re sciaboletta, che avrebbe cambiato l’assetto governativo.
Ogni tanto D’Annunzio si ricorda di essere uno scrittore e si tuffa nelle carte, esce l’edizione definitiva del Notturno, e briga per la pubblicazione dell’Opera Omnia. È sempre assillato da creditori e debiti. L’attrice Eleonora Duse è il suo bancomat negli anni. Ma non è sola, altre signore sono pronte ad essere sedotte, depredate e abbandonate.
Mussolini: <D’Annunzio è come un dente guasto o lo estirpi o lo copri d’oro. Io preferisco coprirlo d’oro.> E lo nomina principe di Montenevoso. I maligni insinuavano che il titolo alludesse alla “folle polvere” che il poeta consumava.
Uno sguardo all’insieme e un commento. Allora parlavano e facevano storia, erano maledettamente convinti, adesso parlano e basta.
Il mio bisnonno Zeno era un socialista di Pietro Chiesa, il deputato operaio. Insegnava a leggere e scrivere ai carbunin che portavano sulle spalle le coffe di carbone dalle navi alle chiatte e poi ai vagoni. Quei facchini resi neri dal fossile, celebrati dal De Amicis.
E Zeno, da buon toscano, si dava del bischero per aver organizzato anni prima una cerca, una colletta, per il Mussolini fuggiasco e ricercato dai questurini. Proprio non ingollava il raggiro, l’imbroglio ideologico.
Ah, chi glielo dice a D’Annunzio, al Keller che oggi Fiume si chiama Rijeka e appartiene allo stato della Croazia?
@barbadilloit
Fu una pasticciata e confusa goliardata (con seguaci importanti) ad elevato tasso sesso, droghe e panzanate pour épater lres bourgeois, dove molti ‘mettevano il cucchiaio’, non una rivoluzione mancata… Qualcuno ci rimise le penne, purtroppo.
A vent’anni mi affascinava. 50 anni dopo D’Annunzio rimane per me l’autore della ‘Risaotta al Pomidauro’, il facitore d’italiche buffonerie, un cattivo maestro di Mussolini, l’epitome di messe in scena sempre ondeggianti tra il trasgressivo, il cialtronesco fine a sé stesso, il piccolo-borghese del vorrei, ma non posso…
Della serie (parafrasando il grande Raymond Aron ): chi a vent’anni non è dannunziano è senza cuore, che lo è a sessanta e oltre è senza cervello
Era un buon poeta. Volle fare il superuomo… Peccato….
Spinto dalla finestra dalla pianista Luisella Baccara, in quanto don Gabriele stava palpeggiando indecorosamente e visibilmente la di lei sorella…
Ultimamente è un piacere seguirla sig.Enrico.