Il messaggio notturno di un amico mi ricorda che il 22 giugno ricorreva un secolo dalla nascita di Attilio Mordini, uno dei maggiori e più sfortunati pensatori cattolici del secolo scorso. Confesso che non me ne ricordavo. Un po’ me ne vergogno, ma le ricorrenze e la memoria giocano specie quando non si è più giovani brutti scherzi. A mia parziale discolpa invoco il fatto che non mi sarebbe sfuggito l’anniversario della sua morte. Attilio Mordini infatti terminò la sua esistenza mondana molto giovane, il 4 ottobre (festa del patrono d’Italia, e lui era terziario francescano), di un anno che noi fiorentini ricordiamo bene: il 1966, l’anno dell’Alluvione. E, secondo un ricordo che sento raccontare da quando ero poco più di un ragazzo, l’acqua dell’Arno si fermò proprio sulla soglia della sua casa, in via San Gallo.
Attilio era nato a Firenze e si era formato in una famiglia di solide convinzioni cattoliche e fasciste. Il padre era un maestro elementare, ma anche primo seniore (tenente colonnello) della Milizia. Una volta mi fu raccontato che a vederlo recarsi la mattina a scuola poteva sembrare “il capo di tutti i raccattasudicio di Firenze”. La sua coorte era infatti composta in prevalenza da netturbini, che il sabato facevano le adunate sotto il suo comando e gli altri giorni salutavano romanamente il loro comandante.
Attilio era un giovane intelligente, di sentimenti patriottici e cattolici, come tanti ragazzi cresciuti in un tempo in cui il Concordato aveva “restituito l’Italia a Dio e Dio all’Italia”; aveva studiato presso gli Scolopi e i Salesiani, e quell’impronta avrebbe lasciato un segno in tutta la sua vita. Il suo fisico sano era stato però compromesso da un incidente automobilistico. Riuscì però a farsi arruolare allo scoppio del conflitto nella Milizia, che era di manica più larga nella selezione dei propri membri, tanto che i maligni dicevano che “prendeva gli scarti del Regio Esercito” (ma non sotto il profilo morale: nella Milizia, per esempio, riuscì a entrare Carmelo Borg Pisani, l’irredentista maltese, nonostante fosse cieco come una talpa, o come si direbbe oggi ipovedente; mandato con una certa leggerezza a organizzare nell’isola un’insurrezione italiana che non vi fu, venne impiccato come traditore dagli inglesi che lo consideravano ancora un loro suddito, nonostante dopo il 10 giugno 1940 avesse restituito il passaporto britannico tramite l’ambasciata statunitense a Roma).
Dopo l’8 settembre 1943, quando tutto sembrava disfarsi, Attilio avvertì un bruciante desiderio di riscattare quello che considerava un tradimento e, non essendosi ancora costituita la Repubblica Sociale Italiana, scelse di arruolarsi come geniere in un reparto tedesco, la IV Panzer Divisionen, inviata sul fronte russo. In seguito al congelamento di un arto, fu ricoverato in ospedale e poi rimpatriato. Appena poté entrò nella Guardia Nazionale Repubblicana, che aveva incorporato la Milizia, insieme ai non più reali Carabinieri e alla Pai, la Polizia dell’Africa Italiana rimpatriata. Vi fu promosso, giovanissimo (ma era il tempo di rapide carriere e di altrettanto rapide cadute) capitano. Proprio lì però nacquero molti suoi guai. Spadroneggiava a Firenze nei ranghi dell’Ufficio investigativo della Gnr l’ex centurione, promosso maggiore, Mario Carità. Carità era un plebeo, figlio di NN, come alludeva il suo cognome, con una grande voglia di rivalsa sociale, specie con quegli ambienti della buona società fiorentina che dopo aver aderito al regime avevano abbandonato il fascismo dopo il 25 luglio. Come investigatore, sequestrando e torturando ottenne successi non indifferenti, ma uno dei suoi hobby preferiti era arrestare figli di ufficiali, di nobili, di possidenti con l’accusa di antifascismo e ottenerne il rilascio dietro riscatto, un riscatto che spesso consisteva nella vendita forzosa di una casa, non recuperabile anche dopo l’arrivo degli Alleati per un giro tortuoso di finte vendite (lo stesso sarebbe stato fatto da componenti delinquenziali del mondo partigiano nei confronti di fascisti: la storia si ripete). La trista fama della banda Carità era tale che Giovanni Gentile poco prima di essere ammazzato era intenzionato a recarsi da Mussolini per denunciarne gli abusi. Questo non vuol dire però che sia stato ucciso con la connivenza del “maggiore”, ma certo in via Trieste, dove aveva sede la “banda”, non piansero per la sua morte.
Mordini era stato cooptato nella Gnr con l’incarico di addetto stampa, ma fu in contatto con Carità, anche se non partecipò alle sue triste imprese. Sposò tuttavia, giovanissima, una certa Margherita Mancuso, che invece militava nella banda. Fu un matrimonio di breve durata, come capita in tempi di guerra, e l’amore di Margherita per Attilio non dovette essere molto duraturo se, processata dalla Corte d’Assise di Padova, cercò di scaricare tutte le colpe sull’effimero marito, accusandolo di averla istigata a entrare nella banda. Mordini, che non fu coinvolto nel processo di Padova, conobbe però i suoi guai: in seguito a una delazione fu arrestato e detenuto e malmenato e affamato alle Murate, dove il suo fisico già logorato dalle vicende della guerra contrasse la tubercolosi che l’avrebbe condotto a una scomparsa precoce. Una volta scarcerato e prosciolto, nonostante le condizioni di povertà in cui era caduta la sua famiglia riuscì a laurearsi in letteratura tedesca col germanista Vittorio Santoli, a frequentare a Roma i corsi della Gregoriana, a essere scelto come lettore d’italiano all’università di Kiel, ma dovette rinunciare dopo pochi anni perché il freddo clima della città tedesca era rovinoso per i suoi polmoni già minati.
Pur non essendo mai salito in cattedra, a parte il lettorato a Kiev, e avendo pubblicato in vita pochissimo, Mordini esercitò un’influenza sotterranea ma profonda sulla vita culturale non solo fiorentina. Uomo senz’altro di destra, non rinnegò mai il suo passato, collaborò a lungo al “Secolo d’Italia” e a varie riviste d’area, da “L’Alfiere” a “Il Ghibellino”, da “Carattere” ad “Adveniat Regnum”. Ma non fu mai fazioso e cercò sempre la strada del dialogo, un dialogo non irenistico, ma fondato su una solida base culturale. Frequentò i locali dell’Amicizia ebraico-cristiana, dialogò con La Pira, di cui non condivideva per altro le aperture a sinistra, tanto che in un articolo l’accusò di eresia, fu autore della voce “Il lavoro nella luce cristiana” nella “Moderna enciclopedia del Cristianesimo” edita nel 1963 dalle Paoline, collaborò alla prestigiosa rivista benedettina “Kairos”. Ma i contributi maggiori li diede forse alla rivista “L’Ultima”, fondata da Adolfo Oxilia, con l’avallo di Giovanni Papini, che raccolse intorno a sé le voci più diverse della cultura cattolica fiorentina e non solo, dallo stesso Mordini a padre Balducci, da padre Turoldo ad Adriana Zarri, per non parlare di Mario Gozzini, futuro senatore eletto come indipendente di sinistra nelle liste del Pci.
Oxilia era un singolare personaggio, che meriterebbe un articolo a parte. Nato a Parma, figlio di un generale caduto nella grande guerra, cugino di quel Nino Oxilia autore della celebre operetta Addio Giovinezza, anche lui caduto nel conflitto, indossò non ancora ventenne la divisa come ufficiale di complemento di cavalleria, sopravvisse alle ultime fasi della guerra e poi, laureatosi in Lettere a Firenze, vinse un concorso per insegnare nel “ginnasietto”, ovvero nelle scuole medie inferiori. Non ambì mai a incarichi più alti, ma fu autore di saggi di alto valore: dei suoi studi sul Machiavelli si trova traccia anche nei Quaderni dal carcere di Gramsci. Grande ammiratore del drammaturgo Ferdinando Tirinnanzi, che considerava un genio, con un eccesso di generosità. fu soprattutto l’animatore di circoli letterari e culturali, come la Camerata dei Poeti, di cui fu a lungo presidente, ma il suo capolavoro fu il periodico “ L’Ultima. Rivista di poesia e metasofia”, in cui riuscì a raccogliere nell’immediato dopoguerra le più diverse voci del cattolicesimo fiorentino. Cultore di esoterismo, appassionato di filologia, sempre incline alla ricerca di significati reconditi nelle scritture, fautore di un cattolicesimo che non si chiudesse al dialogo con le altre religioni – una posizione sospetta presso i vertici ecclesiali dell’epoca, che vi scorgevano venature gnostiche, – si incontrò subito con Mordini, cattolico integralista e critico del Risorgimento, ma al tempo studioso attento del mito e delle simbologie.
La rivista, edita dalla Vallecchi, a scadenza mensile a partire dal gennaio 1946 e bimestrale dal 1951 uscì fino al 1963. Soprattutto nei primi anni, quando le riviste di cultura erano rare, anche per il contingentamento della carta, esercitò un’influenza oggi impensabile. Al suo successo contribuirono il nome del nume tutelare Papini, che esercitava ancora una notevole influenza sul mondo cattolico, nonostante le polemiche legate alla sua adesione al regime, e la varietà delle voci che Oxilia sapeva raccogliere. Il termine ‘metasofia’ esprimeva la ricerca del ‘senso ultimo’ delle cose, rivelato dalla tradizione cristiana, ma presente anche nelle altre tradizioni culturali e religiose.
Oxilia, figura non priva di un proprio carisma, e dotato di un indiscutibile aplomb da ufficiale di cavalleria (fra un richiamo e l’altro era arrivato al grado di tenente colonnello), di convinzioni monarchiche, ma firma prestigiosa del democristiano “Giornale del Mattino” di Ettore Bernabei, per un certo periodo riuscì a tenere unite le varie anime della rivista, cui collaborarono anche, sia pure sporadicamente, La Pira e Piero Bargellini, futuro sindaco dell’Alluvione e all’epoca assessore alle Belle Arti del Comune. Con la morte di Papini, che aveva rappresentato, nonostante il declino fisico degli ultimi anni, il collante fra i collaboratori, prevalsero le tendenze centrifughe. L’ala “sinistra” abbandonò la rivista per fondarne un’altra, “Testimonianze”, che sarebbe divenuta la rivista del cattolicesimo progressista fiorentino e non solo. Carlo Lapucci, che ha dedicato anche alla figura di Mordini un romanzo di tutto rispetto, Itinerario al Vega, e frequentò da ragazzino l’ambiente dell’“Ultima”, perché abitava nello stesso condominio di via XX Settembre dove viveva Oxilia, mi raccontò una volta di aver sentito sulle rive del Mugnone due collaboratori della rivista discutere del prossimo varo della nuova testata, sostenuta dalle sovvenzioni dell’Eni di Enrico Mattei.
La diaspora della sinistra lasciò aperto un crescente spazio per Mordini, non solo per motivi politici, ma per una corrispondenza d’interessi esoterici fra lui e il direttore. Anche quando la rivista dovette chiudere, comunque, egli continuò a esercitare una discreta ma profonda influenza su un cenacolo di giovani e meno giovani intellettuali di destra, che si riuniva ogni giovedì nei locali di una cappella sconsacrata in via della Pergola, messa a disposizione dal conte Neri C. Il più brillante e colto di tutti era Franco Cardini, che avrebbe sempre riconosciuto a Mordini un ruolo determinante nella sua formazione culturale, soprattutto nelle pagine di quella sua splendida autobiografia intellettuale che è L’intellettuale disorganico. Nel frattempo erano venuti anche i primi libri, pochi perché Attilio aveva un rapporto non facile con la penna, e anche perché non gli fu facile trovare degli editori (infatti la maggior parte delle sue opere uscì postuma). A parte Il segno della carne, pubblicato sotto lo pseudonimo di Ermanno Landi, e Giardini d’Occidente e d’Oriente, scritto in collaborazione con quel grande landscape architect che fu Piero Porcinai, le sue opere edite più importanti furono Il tempio del Cristianesimo e Dal mito al materialismo: il primo una sorta di metastoria della civiltà cristiana, l’altro un’analisi di rara finezza delle simbologie mitiche, fondata su una reinterpretazione della favolistica, ma anche dei più recenti prodotti della cinematografia, primi fra tutti i film di Bergman, all’epoca spadroneggianti nei cineforum.
Proprio il primo di questi volumi mi fu imprestato, nella primavera del 1970, da due ragazzi di pochi anni più grandi di me, frequentavano la Giovane Italia di Firenze e avevano avuto il privilegio di conoscere l’autore, scomparso appena quattro anni prima. Il saggio esercitò su di me una straordinaria influenza, anche perché sentii vibrare nel cattolico Mordini una rivolta contro il mondo moderno analoga a quella del capolavoro di Julius Evola.
Oggi, a distanza di più di mezzo secolo, penso che sia il cliché di cattolico ghibellino, sia quello di “Evola cristiano”, con cui è stato a lungo etichettato Mordini, siano superati. Ma non posso fare a meno di ricordarlo a cent’anni dalla nascita, e insieme a lui ricordare, “più disingannato che rinsavito”, il me stesso diciassettenne che la mattina andava alla Biblioteca Nazionale a leggere Il Mistero del Graal di Julius Evola e il pomeriggio Il tempo del Cristianesimo di Attilio Mordini. Ghibellino, forse, ma non fuggiasco.
Premesso che, se Borg Pisani era ipovedente (come in effetti era), non poteva essere “cieco come una talpa”, e premesso che lo gnosticismo di questi personaggi era piuttosto evidente, Evola più che contro il mondo moderno era in guerra col buon senso. Ad ogni modo, a cattolicizzare (superficialmente e ridicolmente) certe teorie di Evola è stato, ahimé, il noto Giovanni Cantoni, uno dei vari paramissini che militavano nella sedicente destra nazionale, erano nostalgici di Salò e poi allo stesso tempo erano nostalgici di Borboni, Asburgo e sacri imperi vari senza mai rendere conto della palese contraddizione.
L’eterodossia conta meno che essere visceralmente anticomunisti. Io lo sono, orgogliosamente…
Su Borg Pisani avevo naturalmente scherzato. Quanto a Cantoni, rifletteva le contraddizioni di un mondo di vinti che finivano per simpatizzare con le ragioni di tutti gli sconfitti della Storia. Seppi da Giano Accame che uno dei libri più amati da molti “ragazzi di Salò” era Lo stendardo di Alexander Lernet-Holenia, edito nella gloriosa “Medusa degli Stranieri” Mondadori, un romanzo che interpretava la sofferenza dei combattenti sconfitti dell’Esercito austroungarico. Sono sentimenti e contraddizioni che a distanza di settant’anni è saggio cercare di comprendere, più che giudicare.
Vorrei aggiungere comunque, a proposito di Cantoni, che l’uomo poteva avere i suoi limiti e io non sono mai stato un suo ammiratore; ma attraverso il movimento da lui fondato, Alleanza Cattolica, sono passate alcune delle intelligenze più lucide della destra, come Alfredo Mantovano e Roberto de Mattei.