Nell’Egitto dei Faraoni, l’albero del sicomoro (detto anche il Fico del Faraone) fu ritenuto sacro e rispettato nella maggior parte dei culti pagani durante tutto il periodo biblico, poichè ritenuto un albero guaritore. Gli antichi egizi avevano consacrato l’albero di sicomoro alla dea Hathor come simbolo di immortalità, di rinascita dalla distruzione, di vittoria sulla morte. Il sicomoro era reputato un albero cosmico assimilato alla fenice, l’uccello mitologico che rinasceva dalla proprie ceneri. I frutti venivano raccolti per uso alimentare, ma anche perchè ritenuto prezioso e detentore di poteri occulti. Il suo legno era usato per la fabbricazione dei sarcofagi: si dice che la tomba di Osiride fu costruita con il legno di sicomoro. Seppellire un morto in una cassa di sicomoro significava reintrodurre la persona nel grembo della dea madre dell’albero, facilitando così il viaggio all’aldilà. Nella mitologia egizia Osiride era colui che aveva portato la civiltà agli uomini’ (cfr. http://papale-papale.it/articolo/1121/mitologia-egizia).
Il sicomoro può arrivare a 20 metri di altezza, ha una chioma ampia e tondeggiante. Le foglie assomigliano a quelle dei fichi, ma non sono quasi mai lobate, hanno forma ovale ed apice arrotondato. Raro in Italia. Tutte queste cose sul Ficus sycomorus io non le sapevo da bambino, pur essendo originario di Valfenera d’Asti per parte dei nonni materni e paterni, soggiornandovi brevemente con una certa frequenza, e certo non le conoscevano la stragrande maggioranza dei residenti. Era il ‘faraone’ e basta; c’era sempre stato, nella piazza, di fianco al sagrato della chiesa parrocchiale dedicata ai Santi Bartolomeo (patrono del paese) e Giovanni, riedificata nel ‘700.
Al di là dei danni inferti dalla stoltezza degli umani, che nell’800 o prima ne avevano scavato il tronco, poi richiuso da mattoni, per aprirvi una botteguccia – e lo avevano quindi gravemente mutilato – si poteva percepire la bellezza di quel vecchio albero acciaccato, ma ancor frondoso, che dal Medioevo, forse dal 1400, aveva offerto ombra e riposo a residenti e viandanti, assistendo da testimone privilegiato, al centro della vita comunitaria e di ogni avvenimento importante, alle vicende quotidiane e sovente tormentate di quella Valfenera (Valfnera o Varfnera in piemontese, anticamente Golfanara o Val Fenaria o Gualfenaria), di remote origini, definita anche, alquanto pomposamente, “la città delle sette torri”. Vallis finaria per gli antichi romani, e per le redazioni medioevali, la sua storia documentata risale al secolo XIII, quando la famiglia Gorzano, feudataria, vi fece costruire un nuovo castello con sette torri fortificate, per contrapporsi, presumibilmente, all’ambiziosa Villanova. All’inizio del ‘500 Valfenera aveva già l’attuale ubicazione.
Il castello (difeso da duemila soldati, pare) ed il paese furono totalmente distrutti, nel 1557, dalle truppe francesi del duca de Brissac, rafforzate da mercenari svizzeri, durante l’ennesimo conflitto tra francesi e spagnoli (con combattenti anche tedeschi ed italiani), dopo un lungo e sanguinoso assedio. La Pace di Cateau-Cambrésis, del 1559, fu il trattato di maggior rilevanza per l’Europa del secolo XVI e sancì, con la supremazia spagnola in Italia, il ritorno ai suoi dominî aviti del Duca di Savoia, Emanuele Filiberto ‘Testa di Ferro’ – condottiero alleato della Spagna, vincitore a San Quintino, 1557 – nipote di Carlo V Imperatore, e poi genero di Francesco I di Francia. Il Duca che portò la capitale a Torino ed ‘italianizzò’ Casa Savoia. Valfenera fu presto ricostruita e del castello rimase solo una torre, convertita nel vecchio campanile (l’ciuché much), ancora vivo e vegeto. Scrisse Goffredo Casalis nel suo monumentale Dizionario geografico, storico, statistico, commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna, XXIII, Torino, 1853: “I valfeneresi sono robusti e d’indole assai buona” (cfr. sulla sua storia l’unica opera esistente, ristampata in anastatica nel 2000: G.B. Marocco, Valfenera nei secoli della sua storia, Torino, 1947. Cugino del nonno dello scrivente).
Valfenera d’Asti è un paese del Basso Monferrato, tra la pianura e l’inizio delle colline, con circa duemila cinquecento abitanti (https://it.wikipedia.org/wiki/Valfenera). Arrivando da Villanova d’Asti sono cinque chilometri di una retta monotona. Quindi, occorre svoltare a destra, prima che inizino le colline e la carrozzabile presegua per Ferrere, in un luogo che si chiama “Ca’ Bianca”, che era un modesto ricovero dipinto di bianco, fatto erigere nel 1836 dal marchese Carlo Filippo Morozzo della Rocca, erede degli antichi feudatari, per il riposo di viaggiatori e di cavalli, recentemente andato a fuoco anch’esso. A fine ‘800 Valfenera era culla di contadini, muratori, filande, ma anche del medico di Umberto I e di Vittorio Emanuele III, Giovanni Quirico, e di Tommaso Villa (1832-1915), genero di Angelo Brofferio, che fu massone, anticonformista, anticlericale, repubblicano, di estrema sinistra. Villa fu avvocato, Deputato per 44 anni, Ministro dell’Interno e poi di Grazia e Giustizia nel II Gabinetto Cairoli, Presidente della Camera ed infine Senatore. Si scrisse che non avesse ricevuto il collare del Supremo Ordine della SS. Annunziata in quanto per due volte frustrato promotore della legge di divorzio…
Proseguendo tra case rurali (in maggioranza ora riciclate, sovente come residenze per il weekend), si giunge alla Via Maestra, come dai vecchi ancora viene denominata l’arteria principale, in realtà Via Duca d’Aosta (il difensore dell’Amba Alagi, nome datole al tempo della R.S.I., al posto di Re Vittorio Emanuele III, e poi rimasto), o Strada Provinciale n. 16, con molte edificazioni recenti. L’abbandono di coltivazioni tradizionali ed il progressivo spopolamento contadino sembrano aver fatto causa comune con le travi di legno di tetti e soffitti, che dopo 120-150 anni erano e sono spesso attaccate dalle termiti ed iniziano a crollare; con un indubbio, successivo progresso delle condizioni abitative. Tutti contributi alla modernità per definire un diverso profilo visuale, sociale, economico ed ambientale, piaccia o no a noi vecchi nostalgici.
Sono spariti o quasi, grazie anche ai contributi comunitari europei per l’ammodernamento e l’igiene delle stalle, nugoli di mosche e l’intenso, diffuso odore di letame, così come il ben più gradevole, alla vista, passo lento di mucche e buoi… Dalla Via Maestra, che svolta infine a destra verso Cellarengo, alla piazza son pochi isolati, a sinistra, percorrendo Via Natale Fiorito. Valfenera era stata fin verso la II Guerra Mondiale un luogo di villeggiatura per alcune famiglie abbienti, per il suo buon clima, la cordialità laconica dei nativi, riservati come piaceva ai piemontesi; gente conservatrice, tollerante (quasi nessuna rappresaglia nel 1945, come confermatomi, una cinquantina di anni fa, dall’ultimo podestà e dal comandante partigiano della zona), fervorosamente cattolica, ma senza fanatismi bigotti. Da Internet si apprende che oltre il 15% della sua popolazione è ora costituita da pendolari e stranieri, in maggioranza romeni, marocchini, albanesi. Alcuni ci abitano e lavorano a Torino (a 38 chilometri) o altrove.
Il sicomoro era un albero simbolico per gli antichi egizi e pure per il nostro medioevo; non l’unico. Con l’olmo, la quercia, il faggio ed altri, esso rappresentava non solo il lignaggio familiare, ma anche una catena stretta di diritti e di obblighi reciproci, teneva uniti tutti i membri dell’ ‘albero feudale’, dal ramo più alto alla più bassa radice. Sotto tale ‘albero feudale’, fisico ed allegorico, si riuniva il popolo per dibattere interessi comuni, i podestà ricevevano lagnanze e richieste, il signore rendeva giustizia d’estate sotto le sue fronde, il parroco vi affiggeva le pubblicazioni di matrimonio o la ricordazione di liturgie, penitenze, processioni e devozioni varie. Mi sovvengo di quando, al di sopra della panca circolare di cemento del plurisecolare faraone, si potevano leggere i bandi e le disposizioni comunali, affissi sull’ampio tronco rugoso. Nella bella stagione c’era sempre seduto qualche anziano con la barba da rasare, il cappello in testa, che ciarlava con coetanei, fumava o masticava un mezzo toscano e poi… sputava per terra!
Di un sicomoro, biblico albero della vita e della salvezza dell’uomo, scoprii poi che ne scrisse John Steinbeck nel racconto Junius Maltby, parte di The Pastures of Heaven (I pascoli del cielo), pubblicato nel 1932, con storie di famiglie contadine della California. Il protagonista sedeva con il figlio appoggiato al tronco del sicomoro, con i piedi penzoloni nello stagno, leggendo e lasciando trascorrere, con noia, disagio esistenziale o saggia svogliatezza, le ore.
Il faraone di Valfenera bruciò la notte di giovedì 28 settembre 1961, per cause sconosciute. Ricordo lo sgomento di mia madre. Le anime sensibili riescono ad entrare in sintonia anche con un albero… La Stampa di Torino riportò la notizia il giorno dopo.
Aveva radici solidissime, robuste, che si estendevano a gran profondità, e fu un ingente lavoro portarne via i resti arsi dal fuoco o bruciacchiati, nell’indifferenza di alcuni (a partire dal sindaco: ‘il transito degli autoveicoli per la piazza sarebbe, comunque, stato più agevole!’) e lo stupore, in fondo doloroso seppur silenzioso, della maggioranza. Quella pianta veneranda, dal nome un po’ strano, era un simbolo e l’amico di tante generazioni, presenti e passate, che moriva. Se per gli antichi egizi il sicomoro è l’albero che sta fuori dalla porta del Cielo, per i valfeneresi quel vetusto e raro fico del faraone addossato alla sacralità della chiesa, in qualche modo caro e misterioso lo era altrettanto. Come una vigile sentinella al centro della ‘piazza dei tre poteri’ (castello/palazzo del feudatario, municipio, parrocchia).
Magìa del tempo, della continuità di simboli e metafore che trascendono le esperienze storiche ed umane… Peccato che le grandi campane del vicino campanile nuovo, eretto all’inizio degli anni ’50, non abbiano accompagnato la morte di quel figlio illustre, quasi un nume tutelare. Le campane nei paesi suonavano a morto (con l’inconfondibile suono triste, sordo, lento, cadenzato). Ed una caratteristica peculiare: se il defunto era un uomo si terminava con due suoni separati, se era una donna con uno solo. Il rythme campanaire descritto da Chateaubriand… Un pezzo non irrilevante, non insignificante di storia, tradizione, di vita comune, ai più forse allora sfuggente, fu frettolosamente spazzato via e per sempre.
Per la verità, nel 2012 un gruppo di abitanti di Valfenera (o di buontemponi) lanciò una campagna su Facebook: “A Valfenera pagheremo con la moneta Faraone”, per rilanciare e sostenere l’economia locale con una forma di denaro alternativa”, battere cioè una nuova moneta territoriale, come il ‘Luigino’ del Principato di Seborga – località di 350 abitanti in provincia di Imperia, in Liguria, senza alcun riconoscimento internazionale – con il faraone per simbolo sul dritto della nuova moneta, da usarsi in una specie di baratto “per tenere la ricchezza all’interno di Valfenera” ed altresì come incentivo “a non spendere altrove”…
(Cfr. www.lastampa.it/asti/2012/06/07/news/a-valfenera-pagheremo-br-con-la-moneta-faraone).
Il vetusto faraone non era stato totalmente dimenticato, dunque. Non pare, tuttavia, che quell’iniziativa, o boutade, abbia poi avuto seguiti di sorta…
Montevideo, 11 maggio 2023
Interessante.