È una Bari elegante e tetra quella che si presenta allo spettatore all’indomani del 26 maggio 1956, dopo una notte tempestosa i cui venti di burrasca hanno spinto le onde del mare perfino tra le strade eleganti delle palazzine d’epoca del quartiere umbertino. Proprio in una di queste, al civico 12 di Via Celentano, l’acqua calda della doccia scorre impetuosa lavando via il sangue dalle mani di un pensieroso Franco Percoco, irrimediabilmente macchiate dell’omicidio della madre Eresvida, del Padre Vincenzo e del fratello minore affetto da sindrome di Down, Giulio. Mentre la bufera infuriava, Franco completava la sua lenta e sofferta discesa nel baratro, tra morte e follia.
Egli non lo sa, ma con le brutalità di cui si è macchiato è virtualmente divenuto un pezzo di storia, il primo stragista italiano del ‘900, aprendo di fatto mezzo secolo carico di drammi e chiaroscuralità, mentre l’Italia rialza lentamente il capo dopo la tragedia della guerra e il boom economico è in procinto di sprigionare le migliori energie del capitale umano del Paese.
L’eccelsa regia di Pierluigi Ferrandini scandisce in modo perfetto gli “happy days” di Franco Percoco, giovane della media borghesia barese che convisse dodici giorni con i corpi dei familiari uccisi e che rinasce sul grande schermo grazie ad una prova attoriale superlativa di Gianluca Vicari, che regge in modo perfetto il ruolo di un personaggio scisso fra la glaciale insofferenza e i propri drammi irrisolti con sguardi vitrei, sorrisi maliziosi ed espressioni enigmatiche tra una cena nel lussuoso ristorante “Radar” sul mare e una passeggiata per le strade del centro di Bari, carico di fastosi ed eleganti abiti su misura.
Franco la soffriva, ma non odiava la sua famiglia e, sebbene questa affermazione possa sembrare paradossale e ossimorica il film, che traspone sul grande schermo la parte terminale dell’appassionante omonimo romanzo di Marcello Introna, si articola minuziosamente sull’analisi della società e del contesto in cui il giovane matura il folle gesto.
Cresciuto in una famiglia oppressiva e che rifletteva su Franco i fallimenti di Vittorio (fratello maggiore, in carcere poiché cleptomane) e Giulio (affetto da sindrome di down, tenuto nascosto ad amici e vicini) il giovane si ritrova ad essere ben presto il mediocre e fallimentare epicentro di tutte le aspirazioni di mamma Eresvida, che lo vorrebbe laureato e papà Vincenzo spesso taciturno e schiacciato dalla presenza ingombrante della moglie.
Dopo la barbarie Franco diventerà piuttosto l’epicentro delle trasformazioni politiche e culturali del suo Paese. Così tra manifesti elettorali di Democrazia Cristiana, altri partiti dell’alveo primo-repubblicano ed i primi negozi di elettrodomestici celebrati come il volano verso un futuro di prosperità il protagonista sarà libero di sfrenare il proprio “composto” edonismo, ormai privo di vincoli e ingombranti impedimenti.
Mentre le mattine si dividono fra compere lussuose, gite in macchina con la fidanzata Tina Tezzi e gli amici Massimo, Enzo Bellomo e Angela Tezzi, le notti di Franco diventano ben presto un connubio scisso fra sogno e realtà, con una Bari splendida e avvolta da una patina di onirico immobilismo spazio-temporale, alimentato da una maniacale cura dei dettagli e da una fotografia cupa e raffinata.
Case chiuse eleganti con suggestivi rimandi in termini di colonna sonora e scenografia al Maestro Kubrick in Shining e Eyes Wide Shut, rumori lugubri dalla stanza della mattanza, rimasta chiusa e velata come uno scrigno degli orrori, fiumi di scotch e l’insistenza dei vicini che si lamentano dell’assenza dei genitori e del cattivo odore che proviene dalle stanze adiacenti a quella rimasta chiusa (echi quasi da pièce teatrale degna del miglior De Filippo) sono gli eventi che scandiscono la vita di un Franco Percoco ormai libero.
Ma la sua è una libertà illusoria, poiché le catene dell’anima sono difficilmente trasportabili e una lettera spedita dal carcere da Vittorio ai genitori è la perfetta esemplificazione dei demoni che divorano il protagonista.
Vicari è magnetico nel mettere in mostra la lenta spirale di follia e malinconia in cui il giovane sprofonderà al termine della pellicola, rendendosi conto che la verità verrà a galla e che il tempo delle illusioni volge al termine, lasciando dietro di sé solo orrore e tristezza.
Ma la complessa chiave di lettura del Percoco rimane nella crepa nata dai bombardamenti del Porto di Bari ad opera dei tedeschi nella Seconda Guerra Mondiale. Una crepa nella camera dei genitori da cui mosche, vermi ed olezzo dei cadaveri in putrefazione trasmigrano verso le abitazioni vicine. Una crepa che rappresenta quasi una beffarda metafora spirituale per Franco Percoco e che delinea il suo rapporto con i familiari, il suo rapporto con il presente e perfino con il proprio “io”.
Perché Franco, sepolto dalle pressioni e aspirante campione di anonimato e tranquillità finì, in una notte di tempesta, per diventare immortale.
Oggi il suo nome evoca uno tra i fatti di cronaca nera più agghiaccianti della storia e la sua controversa fama si rinnova.
Ma alla fine del film lo spettatore verrà pervaso da sentimenti contrastanti e l’ultimo, lugubre interrogativo rimarrà sempre: “Quanti Franco Percoco ci circondano oggi?”.