
Già nei primi decenni del II secolo a. C. il Siracide osservava: «Un governatore saggio educa il suo popolo, il governo dell’uomo di senno è ordinato» (1). Per l’autore biblico l’ordine è, dunque, un elemento fondamentale del buon governo. E l’ordine, con ogni evidenza, si riferisce ad una buona amministrazione, ad un ordinamento coerente e chiaro. Se prendiamo invece la nostra Costituzione, in particolare il titolo V intitolato «Ordinamento della Repubblica – Le regioni, le province, i comuni», senza voler nemmeno entrare nel merito delle competenze rispettive e dei rapporti degli enti territoriali con l’autorità centrale, salta subito agli occhi un forte elemento di disordine amministrativo: le Province e le Regioni obbediscono a concezioni dello Stato diverse e contrapposte, centralista la prima, regionalista la seconda.
Va peraltro messo in risalto che la pessima riforma del titolo V del 2001 (governo Amato) non solo non ha risolto il problema, ma anzi l’ha aggravato sovrapponendo competenze a competenze, come si è visto drammaticamente per la sanità durante la pandemia. Le province, abolite sulla carta con la pseudo riforma del 2012 (governo Monti,) in ogni caso, continuano a vivere come ectoplasmi una risicata vita accanto agli altri enti territoriali. E il disordine amministrativo diventa ancor più grave quando si passa alla suddivisione delle competenze tra Stato e Regioni.
Limitiamo l’esame alla materia ambientale.
Lo studioso Salvatore Settis, tuttora inascoltato dalla classe politica, tornando per l’ennesima volta a parlare di paesaggio e, in particolare, ad affrontare la questione relativa all’impatto dell’edilizia sul paesaggio e sul consumo di suolo, pone l’accento su quello che possiamo considerare un peccato d’origine in materia di norme: il divorzio tra tutela dell’ambiente e politica urbanistica. Per la verità, già nella legislazione d’epoca fascista, che comunque all’epoca era all’avanguardia, c’era stato un «mancato raccordo fra tutela dei paesaggi (legge Bottai, 1939) assegnata alle Soprintendenze e pianificazione urbanistica controllata dai Lavori Pubblici» (2). Entrambe le leggi, però, contenevano dei correttivi contro l’eccessivo consumo di suolo, sancendo la supremazia dello Stato sull’interesse privato. Successivamente, quello che era un peccato veniale è diventato un peccato grave con la Costituzione Italiana che «assegnando allo Stato la tutela del paesaggio (art. 9) e a Regioni e Comuni le competenze urbanistiche (art 117) ha ulteriormente moltiplicato le competenze» (3). Fino poi a giungere all’attuale situazione normativa, frutto del pressappochismo della casta politica e della perdita del senso dello Stato.
Va peraltro rilevato che la ricostruzione postbellica fu di fatto l’occasione per il saccheggio del territorio. Fu proprio allora, nella famelica e indiscriminata ricostruzione seguita al dopoguerra, che si radicò uno dei pregiudizi più duri a morire, cioè che l’edilizia sia un fattore trainante dell’economia. E’ vero invece che spazi notevoli di occupazione utile si aprono nella manutenzione, nella ristrutturazione energetica degli appartamenti e in generale nella riconversione ecologica degli edifici, come ha dimostrato a più riprese l’economista Maurizio Pallante nei suoi saggi (4).
Le conseguenze di un mancato governo del territorio da parte dello Stato e soprattutto di un malgoverno da parte degli enti locali sono sotto gli occhi di tutti: alluvioni, frane, perdita di biodiversità, ingenti danni economici, sanitari e ambientali. La sovrapposizione di competenze tra enti territoriali e Stato costituisce non solo un caso di cattiva amministrazione, ma anche un fattore che contribuisce indirettamente al dissesto del territorio, ritardando gli interventi urgenti e rendendo poco chiari i livelli di responsabilità.
Per ovviare a questo disordine amministrativo va presa in seria considerazione la proposta di una riforma del titolo V della Costituzione che preveda l’introduzione delle bioregioni.
Che cos’è una bioregione? Ecco come la definisce uno degli esponenti di spicco dell’ambientalismo americano, Kirkpatrick Sale: «Per bioregione si intende una parte della superficie della terra i cui confini sono definiti sia da fattori naturali che culturali. Ogni bioregione è circoscritta da caratteristiche naturali ben determinate come il clima, il suolo, la fauna, la flora, ecc. e da specificità culturali della popolazione come la sua tradizione, la sua storia, la lingua. Nel caso specifico dell’Italia penso che il vostro territorio possa essere suddiviso in bioregioni facendo riferimento a fiumi storici e millenari che sgorgano a valle delle Alpi e dagli Appennini. Per fare un esempio concreto si possono considerare il Tevere e i suoi affluenti come una bioregione naturale» (5).
In altre parole, al posto delle venti grosse e grasse Regioni introdotte nel 1970 e della disordinata ripartizione del territorio in cento e passa Provincie e in quattordici città metropolitane si potrebbe prevedere un solo grado intermedio tra Stato e Comuni costituito dalle Bioregioni (all’incirca 50/60), che rifletterebbero meglio la storia, la geografia e la cultura (anche linguistica) dei territori. In tal modo, fissando una linea chiara di demarcazione tra materie di competenza statale e di competenza bioregionale, si ridurrebbero i costi, le inefficienze e il disordinato moltiplicarsi dei centri decisionali, che portano al proliferare di abusi, di colpevoli ritardi, di immancabili disastri.
D’altronde, un politico di lungo corso come Romano Prodi, in un’intervista rilasciata a caldo a La Stampa, dopo le ultime elezioni regionali del 13 febbraio 2023 che hanno visto la partecipazione al voto calare bruscamente e andare al di sotto del 50% degli aventi diritto (dato peraltro confermato anche nelle ultime elezioni regionali svoltesi in Friuli Venezia Giulia del 2 e 3 aprile con affluenza intorno al 45 %), ha dichiarato: «Le Regioni non sono nel cuore delle persone».
A ben guardare, la costituzione del 1948, nel delineare le Regioni italiane non ha tenuto affatto conto delle particolarità dei territori italiani, ma ha ripreso la vecchia e astratta ripartizione disegnata a tavolino a soli fini statistici e fiscali da due milanesi, il giurista Cesare Correnti e il medico Pietro Maestri, all’indomani dell’unità dell’Italia (6).
Non c’è dubbio che le Regioni italiane siano «delle costose forzature che assemblano realtà storiche e geografiche eterogenee: Emilia e Romagna, Trentino e Alto Adige, Friuli e Venezia Giulia, sono solo le più evidenti» (7). Così esemplificando: «le Puglie sono almeno tre: il Salento, la Daunia e il Barese. Ma lo stesso direi della Sicilia, vera Trinacria, o la Campania – tra sanniti-irpini, salernitani e napoletani – la Lucania spaccata tra Cilento e Basilicata,e l’alto Lazio o Tuscia e il basso Lazio ciociaro, più l’area romana. E la Toscana, con la Maremma che guarda a Siena, Pisa che guarda a Livorno e alla Lucchesia, e l’area fiorentina- aretina. E l’Emilia diversa dalla Romagna e dal Parmense» (8).
«Se l’Italia è una nazione culturale – conclude Marcello Veneziani – è giusto che anche le sue piccole patrie siano disegnate sulla linea storico-linguistica-culturale» (9).
Va infine rilevato che l’idea di un riordino territoriale dello Stato è stata poi autorevolmente rilanciata nel 2014 dalla Società Geografica Italiana che ha proposto una nuova scientifica e ragionevole divisione del territorio in 36 dipartimenti. La proposta, che parte dalla constatazione della mancanza in Italia di un disegno complessivo e aggiornato, prevede che le nuove Regioni sostituiscano le Regioni e le Province esistenti e siano il più possibile autosufficienti, anche fiscalmente (10).
Questa proposta è destinata a restare solo un sogno? Purtroppo sì, finché avremo una classe politica, che fa orecchi da mercante e fa prevalere gli interessi di bottega sul bene comune.
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(1) Siracide, 10,1;
(2) Salvatore Settis, “Paesaggio: ecco come diamo i numeri”, in Sole 24ore del 24.02.2013;
(3 )ibidem;
(4) cfr., tra gli altri, Maurizio Pallante, Un futuro senza luce, Editori riuniti, 2006 e Meno e meglio, Bruno Mondadori, 2011;
(5) Kirkpatrik Sale, Inventiamoci le bioregioni, in L’Italia settimanale del 19 gennaio 1994;
(6) Paolo Magliocco, Chi ha inventato le Regioni italiane, in La stampa del 25 novembre 2017);
(7) Marcello Veneziani, Via le Regioni e via le Province, in il Giornale dell’1 febbraio 2012;
(8) ibidem;
(9) ibidem;
(10) ecco quale sarebbe la mappa delle nuove Regioni secondo la Società geografica italiana:
1. Aosta, Verbano-Cusio-Ossola, Novara, Biella, Ivrea
2. Torino
3. Cuneo, Asti, Alessandria
4. Milano e Pavia
5. Bergamo, Como, Lecco, Varese, Sondrio, Monza-Brianza
6. Piacenza, Cremona, Parma
7. Brescia, Verona, Mantova
8. Trento e Bolzano
9. Venezia, Padova, Vicenza, Treviso, Belluno
10. Trieste, Udine, Pordenone, Gorizia
11. Ferrara e Rovigo
12. Genova, Savona, Imperia
13. Bologna, Modena, Reggio Emilia
14. Ravenna, Rimini, Forlì Cesena
15. Pisa, Livorno, La Spezia, Lucca, Massa e Carrara
16. Firenze, Arezzo, Pistoia, Prato
17. Siena e Grosseto
18. Ancona, Pesaro-Urbino, Macerata, Ascoli Piceno, Fermo
19. Perugia e Terni
20. Roma, Viterbo, Rieti
21. Latina, Frosinone, Isernia
22. L’Aquila, Pescara, Chieti, Teramo
23. Napoli e Caserta
24. Salerno, Benevento, Avellino
25. Potenza e Matera
26. Foggia e Campobasso
27. Bari e Bat (Barletta-Andria-Trani)
28. Lecce, Taranto, Brindisi
29. Cosenza, Catanzaro, Vibo Valentia, Crotone
30. Reggio Calabria
31. Messina
32. Catania e Siracusa
33. Ragusa, Agrigento, Caltanissetta, Enna
34. Palermo e Trapani
35. Cagliari, Carbonia-Iglesias, Medio-Campidano, Oristano
36. Sassari, Nuoro, Olbia-Tempio