Non sapendo di cos’altro accusare il governo di centrodestra, il sistema mediatico del “politicamente corretto”, da sempre a servizio del centrosinistra se non della sinistra estrema, arriva persino ad accusare il governo presieduto da Giorgia Meloni di aver prodotto, con l’inserimento di quella parolina- chiave che è il sostantivo “merito” nella denominazione del Ministero dell’Istruzione, l’incremento degli “abbandoni scolastici” che di recente si registrerebbero nei licei.
Qualche settimana fa’, “Repubblica” ha pubblicato un servizio sulla scuola italiana denunciando l’allarmante fenomeno per cui «metà degli studenti sono stressati e ansiosi; troppa pressione da parte degli insegnanti.» Sicché numerosi quattordicenni prima si iscrivono al Liceo Berchet di Milano, oppure al Liceo Scientifico Newton di Roma o ancora al Liceo Scientifico Cassini di Genova e poi abbandonano questa prima scelta per altre scuole, ritenute meno esigenti.
Il 5 aprile scorso, nella sua rubrica di prima pagina del “Corriere della Sera”, Massimo Gramellini è tornato su questo tema. Gramellini, nel suo consueto “caffettino”, ha riportato quanto la studentessa ferrarese che non ha superato il test per l’accesso a Medicina, e che per questo avrebbe pensato a suicidarsi, ha detto al Presidente della Repubblica. La ragione che sarebbe alla base di questo disagio è «il mito della meritocrazia, il culto della performatività, l’idea che per valere qualcosa nella vita tu debba riuscire a importi meglio e in meno tempo degli altri. Un modello retorico che viene spacciato come l’unico possibile e come tale è subito dai genitori, non contrastato dalla politica e alimentato dai media con l’esaltazione dei “super-studenti” e la diffusione di talent show dove si è giudicati di continuo e conta solo arrivare prima.»
Così un tema senz’altro scottante e che meriterebbe un serio e rigoroso approfondimento viene strumentalmente utilizzato per attaccare il principio del “merito” e il governo “Meloni” che aspirerebbe a farlo valere nel sistema scolastico italiano.
Se si volesse però fare un esame più attento della situazione, con un’analisi meno prevenuta ed ideologizzata, si dovrebbero prendere in considerazione diversi fattori. Per intanto nel 2017 l’OCSE effettuò un’indagine sullo stato di “benessere” o di disagio eventualmente vissuto dagli studenti quindicenni appartenenti a ben 72 paesi. Ebbene da questa indagine emerse che nella graduatoria del “maggior disagio” gli studenti italiani erano al 1° posto.
Il rapporto era riferito al 2015 e da esso risultava che il 56% degli studenti italiani studiava “con grande tensione”, che 2 su 3 studenti provavano molta ansia prima di un test anche quando si sentivano preparati ed avevano studiato, che 4 su 5 studenti diventavano nervosi se non riuscivano a fare un compito a scuola e l’85% si dichiarava preoccupato di prendere brutti voti.
Facile, se non ovvio, osservare che nel 2015 si era ben lontani dall’ipotizzare un governo a guida Fratelli d’Italia che aspirasse a introdurre nel sistema scolastico italiano il valore del “merito”. Tuttalpiù questi potevano considerarsi gli effetti di almeno 30 anni di abolizione di ogni principio meritocratico e di appiattimento verso il basso degli apprendimenti, soprattutto della sottrazione di senso allo studio, al conoscere e all’apprendere. Era, come lo è ancora oggi purtroppo, una scuola in cui i principi e l’indirizzo del ’68 egemonizzavano l’impostazione cultural-pedagogica del dicastero, un tempo guidato da Giovanni Gentile. Negli approssimati e strumentali allarmi che si lanciano su questo incipiente fenomeno si ignorano invece due fattori rilevanti e significativi che esercitano pesantemente la loro incidenza.
Innanzitutto si dimentica che gli alunni che si sono iscritti nell’anno scolastico 2022-2023 ad un liceo sono quindicenni che hanno del tutto saltato il ciclo della Scuola media inferiore fatto in presenza, con l’uso della Didattica a distanza (DAD) nel 2019-2020 e nel 2020-2021, parzialmente e ad intervalli anche nel corso del 2021-2022. Save the Children e l’UNESCO in un appello del 2020 denunciavano la necessità di rigorosi interventi sui mancati apprendimenti (learning loss) dovuti alle chiusure (lockdown) e quindi alla DAD.
A questi alunni non solo mancarono le lezioni in presenza ma anche il corredo delle relazioni umane tra pari che, prima delle chiusure dovute al Covid, si saldavano tanto in ambiente scolastico quanto fuori da questo ambiente. E ciò ha prodotto, come dimostrato da diverse indagini, anche un aumento delle sindromi a carattere psicologico se non psichiatrico.
Spesso si evidenziano le cose dette da Papa Francesco che convengono al sistema mediatico del pensiero unico e non viene dato risalto ad altre cose forse più importanti, pronunciate dal Pontefice. Su questo tema il Papa, parlando di “buchi formativi”, ebbe ad affermare: «Ovunque si è cercato di attivare una rapida risposta attraverso le piattaforme educative informatiche, le quali hanno mostrato non solo una marcata disparità delle opportunità educative e tecnologiche, ma anche che, a causa del confinamento e di tante altre carenze già esistenti, molti bambini e adolescenti sono rimasti indietro nel naturale sviluppo pedagogico. […] Assistiamo a una sorta di catastrofe educativa. Vorrei ripeterlo: assistiamo a una sorta di “catastrofe educativa”, davanti alla quale non si può rimanere inerti, per il bene delle future generazioni e dell’intera società.»
Come il PNRR, approvato dal Governo Draghi, ha pensato di rimediare a questi “buchi formativi”? Con una spesa di 1.4 miliardi di euro da impiegare a favore di 120.000 studenti in età compresa tra i 12 e i 18 anni per 17 ore di recupero e una sessione on line di mentoring, rimedio men che meno di carattere “omeopatico”, o meglio, corrispondente ad un “placebo”, pur finanziato con una somma consistente.
Un secondo fattore è che il ricorso alla DAD ha incentivato la dipendenza da Internet, dal web e dal digitale in maniera crescente. Oggigiorno uno studente adolescente passa in media dalle 6 alle 8 ore giornaliere sui social. Facciamo un po’ di conti: 6 ore stanno a scuola, 7-8 ore per dormire, restano nella giornata altre 10 ore. Se 8 di queste ore sono trascorse al cellulare o allo smartphone, quanto tempo resta per dedicarsi seriamente allo studio? Sempre Papa Francesco ha affermato: «[…] l’aumento della didattica a distanza ha comportato pure una maggiore dipendenza dei bambini e degli adolescenti da Internet e in genere da forme di comunicazione virtuali, rendendoli peraltro più vulnerabili e sovraesposti alle attività criminali on line.»
Forse quello che sta accadendo nei più noti e rinomati licei milanesi, romani e di altre città italiane è dovuto più a questi fattori che non all’aver finalmente introdotto il concetto del merito che, a nostro avviso, va da subito declinato concretamente, magari rendendo cogente quella circolare che vieta l’uso dello smartphone in classe. 5-6 ore al giorno di decondizionamento dalle connessioni e dalle relazioni meramente virtuali farebbero bene alle future generazioni e, con esse, all’Italia.